Divario di genere, un focus su Casse di Previdenza e fondi pensione italiani

Dal gender gap retributivo a quello pensionistico: in che modo la condizione professionale incide sul trattamento previdenziale? E come e quando può venire in soccorso l'iscrizione al secondo pilastro? Alcuni spunti di riflessione a partire dai dati su liberi professionisti, Casse di Previdenza e fondi pensione italiani

Alessandro Bugli

Partiamo da un prima dato, più generale: in Europa la retribuzione oraria lorda (quindi prima dell’applicazione di contributi e imposte) delle donne è inferiore del 13% rispetto a quella degli uomini. Il dato, chiarisce il Parlamento Europeo, è riferito però ai datori di lavoro con 10 o più dipendenti. 

Se si guarda al confronto europeo, l’Italia non esce male (in media un 5% di differenziale), rispetto ad altre realtà europee, anche importanti, che vanno in doppia cifra. Detto questo, attenzione che di media oraria lorda stiamo parlando. Il ragionamento deve tenere conto delle differenze tra singoli settori e ambiti di lavoro, del tipo di lavoro (se autonomo, dipendente o forme diverse), del fatto che il dato guarda a datori mediamente strutturati (nel mercato italiano c’è una fortissima concentrazione di microimprese), del numero di ore lavorate e dei possibili stop temporanei all’attività lavorativa, in ragione – magari – di carichi familiari. 

In questo senso, stante la difficoltà di giungere a un indicatore più preciso, rispetto alla media poc’anzi detta, negli anni scorsi si è iniziato a fare ricorso a un indice più puntuale, che tenesse conto delle ore effettivamente lavorate e dell’effettivo differenziale tra occupazione maschile e femminile (estremizzando, se l’unica donna che lavora fosse ai massimi livelli di carriera, professionalità e livelli di studio e nessuna altra lavorasse, si potrebbe anche verificare che le donne guadagnano più degli uomini). Il riferimento è al gender overall earning gap: in questo l’Italia farebbe peggio della media dell’Unione Europea.

Guardiamo, ora, al dato che ci interessa. Una minore retribuzione media o complessiva non può che produrre un gap pensionistico futuro. In linea con i lavori degli anni passati, abbiamo provato qui, empiricamente e sulla base dei dati pubblici (tra cui, quelli di Itinerari Previdenziali, AdEPP e COVIP), a guardare a due grandi attori del welfare privato - Casse di previdenza dei liberi professionisti e fondi pensione - per capire se e cosa sta succedendo: una visione parziale e particolare, ma voluta, dando ragionevolmente per confermato che in sede INPS, il differenziale di reddito, nel calcolo contributivo, comporterà per definizione un minor trattamento pensionistico per le lavoratrici/pensionande donne (per maggiori approfondimenti, si rimanda a questo articolo di Michaela Camilleri).

I due settori non sono ovviamente omogenei. Alle Casse per definizione aderiscono i liberi professionisti, ai fondi pensione potenzialmente tutti, lavoratori subordinati, autonomi e, anche, non lavoratori. D'altra parte, come si può intuire, i riflessi che vediamo sul primo pilastro dei professionisti (secondo i dati, quelli cha patiscono un maggiore gender pay gap, rispetto ai dipendenti), ci raccontano anche un qualcosa sul perché di un possibile differenziale di genere nell’adesione alla previdenza complementare.

 

Casse di Previdenza dei professionisti (Itinerari Previdenziali e XII Rapporto Annuale AdEPP)

Secondo quanto emerge dal Decimo Report Itinerari Previdenzali sugli investitori istituzionali italiani, ci sono 1.853.819 professionisti al 31 dicembre 2022, al netto dell’avvenuto assorbimento della Cassa dei Giornalisti – INPGI, che sostituiva l’AGO, all’interno dell’INPS e di Casagit Salute. 

Le donne sono il 42% del totale (dato AdEPP che tiene conto di un campione più ampio ed esteso a tutti gli enti previdenziali privati, ma il senso non cambia). Le donne professioniste sono mediamente più giovani degli uomini, superando persino questi ultimi in termini percentuali nella fascia under 40. Il differenziale medio di reddito, a scapito delle professioniste, è del 45%. La differenza sussiste per tutte le aree geografiche italiane. Sia al Nord, dove i redditi maschili e femminili sono mediamente più alti, sia la Centro che al Sud.

Il dato del differenziale di reddito va letto, però, con attenzione e correlato alle fasce di età e all’ammontare del reddito stesso. Se è vero che in tutte le fasce di età il differenziale esiste, per i professionisti sotto i 30 anni il differenziale è di “solo” circa il 5% a differenza di quanto avviene nella fascia tra i 50 e i 60 anni, dove si superano i 40 punti percentuali. Se si guarda ai redditi, idem; ricordando che a fronte di redditi medi sensibilmente diversi tra i due i generi, in realtà – andando per teste di professionisti – il reddito reale è di molto inferiore a quello medio (che conta anche redditi elevati di pochi professionisti) e, quindi, la forchetta si riduce in parte. 

Venendo, quindi, a una breve sintesi due sono le possibili letture, non necessariamente alternative: 1) in partenza di carriera si hanno redditi pressoché simili e, poi, in molti casi, la progressione di carriera conduce a forchette non trascurabili, per tante e diverse ragioni; 2) il differenziale si sta assorbendo nel tempo, e questo effetto è maggiormente prevedibile nelle nuove professionalità, rispetto ai trend del passato.

Cosa comporta tutto questo? Come anticipato, un possibile gap pensionistico tra professionisti uomini e donne, con impatto sul tempo della Silver Age, sia in termini mantenimento della qualità della vita sia in termini di necessità di futura assistenza. E la previdenza complementare gioca un ruolo fondamentale per ridurre questo gap: guardando allora ai fondi pensione, cosa sta succedendo?

 

Fondi pensione (Itinerari Previdenziali e Relazione COVIP per il 2022)

Su 9,2 di iscritti effettivi alla previdenza complementare, solo il 38,2% è costituito da donne (COVIP chiarisce che il dato cresce solo per gli iscritti under 20, spesso familiari a carico, dove le donne arrivano al 45,5%. Il divario è più sensibile nei fondi negoziali, rispetto alle forme commerciali, fondi aperti e PIP. La media di età degli iscritti (uomini e donne) è circa di 47 anni. La percentuale di uomini è maggiore nel lavoro autonomo (circa il 67%) rispetto al lavoro subordinato (circa il 64%). La dislocazione geografica prevede una maggiore presenza sia di uomini che di donne al Nord. Gli uomini versano circa un quinto in più delle donne (uomini: 2950 euro; donne: 2.480).

Trattandosi di osservazioni empiriche, senza alcuna pretesa di giungere a conclusioni strutturate, possiamo qui limitarci a rilevare quanto appare di già evidente: il mondo del lavoro incide sensibilmente sul nostro futuro pensionistico di primo pilastro. Aspetto questo che non può essere trascurato, guardando al presente, ma soprattutto a un sistema pensionistico, con metodo di calcolo contributivo (tanto versi, tanto ottieni). Questo, sembra, però, valido anche per gli strumenti di secondo pilastro, che dovrebbero aiutarci a ridurre il rapporto tra la nostra pensione e l’ultimo reddito (il cosiddetto tasso di sostituzione) e che risentono specularmente di una minore sicurezza economica e stabilità dell’attività professionale. È chiaro che là dove c’è più reddito, c’è maggiore propensione al risparmio (nella nostra fotografia, lavoratori uomini, lavoratori e lavatrici del Nord e con età media sempre più elevata). 

Detto questo, ferme le dinamiche lavoristiche che sono certamente imprescindibili, ancora tanto si può fare in termini di contrattazione e di stimolo (anche culturale) all’adesione ai fondi pensione. I percorsi legati alle adesioni contrattuali hanno aiutato e aiutano per una maggiore consapevolezza del valore dello strumento fondo pensione e per uno stimolo a finanziarlo, anche con il solo TFR. Le semplificazioni per il riscatto del 2017 (in caso di perdita del lavoro, sebbene solo per i dipendenti) dovrebbero servire una maggior serenità nell’iscrizione, sapendo di poter accedere alla malaparata a quanto accantonato, nel momento del bisogno, anche prima della pensione (dovendo rimanere fermo il rispetto del valore previdenziale dello strumento). 

Detto questo, uno dei passi fondamentali sarà quello di lavorare in termini di idee e soluzioni riguardo lo strumento complementare, per favorirne il ricorso anche da parte dei lavoratori autonomi (che non possono utilizzare il TFR, a differenza dei dipendenti), avendo riguardo anche all’effetto avverso del gender pay gap riguardante le nostre colleghe professioniste.

Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
e partner Studio legale THMR

28/08/2023

 
 

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