Obbligatorietà del versamento del TFR ai fondi pensione: le ipotesi sul campo

Tra le fila del Governo sono attualmente in discussione diverse ipotesi sul fronte pensionistico, tra cui l'obbligo di destinare una parte del TFR alla previdenza complementare o l'attivazione di un nuovo semestre di "silenzio assenso". Quali le prospettive sul piatto e i possibili effetti per i fondi pensione?

Giulia Sordi

Secondo recenti indiscrezioni, sembrerebbe pronta la nuova proposta di legge per rendere obbligatorio il trasferimento di una parte del TFR dei dipendenti ai fondi pensione e che, se vedrà luce, potrebbe trovare spazio all’interno della Legge di Bilancio per il 2025. L’obbligo si concretizzerebbe nel versamento automatico di una base del 25% del TFR alla previdenza complementare (con la possibilità di poterla incrementare successivamente) attivando immediatamente, per tutti i lavoratori dipendenti, un percorso di risparmio in un fondo pensione.

Al vaglio del Ministero del Lavoro anche l’ipotesi di introdurre un nuovo semestre di silenzio-assenso, una misura che prevede il trasferimento integrale del TFR maturando alla previdenza complementare per tutti quei lavoratori che non dichiarino esplicitamente di voler mantenere il TFR in azienda (o al Fondo di Tesoreria INPS per i lavoratori di aziende con più di 50 dipendenti). L’ultima sperimentazione sul “silenzio-assenso” risale al 2007, anno in cui il numero degli iscritti alla previdenza complementare aumentò del 43,2%, passando da poco più di 3,1 milioni a oltre 4,5 milioni aderenti. Il tasso di partecipazione globale si fermò tuttavia al di sotto del 30% per portarsi al 36,2% negli anni successivi (percentuale che scende al 26,3% considerando gli iscritti effettivamente versanti). Oggi, il numero complessivo di ingressi nel sistema avvenuti attraverso la modalità tacita – e quindi unicamente con il conferimento del TFR - si attesta a circa 450.000 (dati relazione COVIP 2022). 

 

Obbligatorietà o silenzio-assenso: quali sono i fondi pensione coinvolti

Se un'eventuale formula di obbligatorietà o di silenzio-assenso avrà seguito, salvo diverse previsioni, le regole per disciplinare il “flusso” dei nuovi iscritti e contributi dovrebbero seguire le impostazioni previste dell’articolo 8, comma 7 del Dlg. 252/2007 e già adottate nel 2007. In particolare, si prevede che, nel caso di adesioni “tacite”, a decorrere dal mese successivo alla scadenza di 6 mesi:

1) il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando dei dipendenti alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, salvo sia intervenuto un diverso accordo aziendale che preveda la destinazione del TFR ad altra forma collettiva; 

2) in caso di presenza di più forme pensionistiche di riferimento - si pensi, ad esempio, alla compresenza tra fondi di categoria e fondi territoriali - il TFR maturando è trasferito, salvo diversi accordi aziendali, a quella alla quale abbia aderito il maggior numero di lavoratori dell’azienda; 

3) qualora non siano presenti fondi di riferimento, il datore di lavoro trasferisce il TFR maturando al fondo negoziale Cometa che, dal 2020, è stato individuato come fondo subentrante a FONDINPS, forma pensionistica complementare istituita presso l’INPS, successivamente soppressa. 

 

Prospettive e riflessioni

Nell’opposizione, ma anche nella maggioranza di Governo, non manca chi ha sollevato qualche dubbio sulla costituzionalità dell’obbligo di trasferire automaticamente una quota parte del TFR ai fondi pensione. Dall’altra parte, l’ipotesi di un nuovo silenzio-assenso sembra suscitare un maggiore interesse nel mondo sindacale e delle associazioni imprenditoriali, quest’ultime preoccupate – in particolare per le micro/piccole aziende - di perdere un importante sostegno finanziario come il TFR (tenuto conto poi della soppressione, nel 2007, del fondo di garanzia per le PMI, istituito con il D.Lgs 252/2005, per finanziare a tassi vantaggiosi il deflusso del TFR dalle aziende con finanziamenti a medio lungo termine).

Al netto delle valutazioni sull’appropriatezza di una o dell’altra misura, sono inevitabili alcune riflessioni che, sulla base delle esperienze già maturate, potrebbero contribuire al buon esito delle iniziative:

- "Esiste un solo bene, la conoscenza, ed un solo male, l'ignoranza” (Socrate). Senza una solida campagna informativa e formativa incentrata sull’educazione previdenziale e finanziaria, il rischio è quello che i lavoratori non comprendano le ragioni della misura e adottino un atteggiamento oppositivo. L’esperienza sulle “adesioni contrattuali” ci mostrano come la scarsa consapevolezza sulle dinamiche previdenziali del nostro Paese porti a livelli di contribuzione pro capite e di prestazione non sempre ottimali; 

- cura dell’“architettura delle scelte” (Relazione COVIP per l’anno 2023, Considerazioni del Presidente), ovvero le modalità attraverso le quali le scelte degli iscritti vengono suggerite e guidate, al fine di realizzare la migliore allocazione del risparmio previdenziale. Come approfondito in questo articolo del blog a firma di Bruno Bernasconi, dati alla mano, appare evidente come la scelta - volontaria o automatica - della linea di investimento incida significativamente sulla fase di accumulo di un fondo pensione, in particolar modo, per le classi di età più giovani e con orizzonti temporali di medio-lungo periodo. Per tale ragione, risulterebbe appropriato un ragionamento sull’introduzione di linee a maggiore vocazione azionaria o life-cycle come scelta di default da parte degli operatori di settore; 

- sebbene i rendimenti medi annualizzati realizzati dai fondi pensioni negli ultimi 10 e 20 anni siano pari o superiori ai parametri di riferimento (rivalutazione TFR e inflazione), riportare l’imposta sui risultati finanziari dall’attuale 20% all’originale 11% potrebbe senz’altro agevolare il percorso di risparmio degli iscritti, così come l’ipotesi di portare temporalmente la tassazione al momento del riscatto, anziché annualmente come attualmente in vigore; 

- reintroduzione del fondo di garanzia a favore delle PMI fino a 49 dipendenti per compensare il deflusso di TFR verso i fondi pensione: in tale comparto, solo il 10% dei lavoratori è iscritto alla previdenza complementare pur rappresentando oltre il 50% della forza lavoro in Italia. Infatti, osservando i dati del Censimento permanente delle imprese pubblicato da Istat, è possibile fotografare una situazione che vede microimprese (con 3-9 addetti in organico) e aziende tra i 10 e i 49 dipendenti rappresentare rispettivamente il 78,9% e il 18,5% del tessuto produttivo nazionale. Ignorare in questa fase di interlocuzione la composizione imprenditoriale del Paese, senza intervenire con misure ad hoc che possano sostenere le aziende stimolate - se non vincolate - a destinare in tutto o in parte il TFR dei dipendenti alla previdenza complementare, potrebbe de facto escludere dall’operazione più della metà dell’intera popolazione lavorativa; 

- incentivare gli investimenti in economia reale domestica che, secondo i dati pubblicati nell’Undicesimo Report annuale "Investitori istituzionali italiani: iscritti, risorse e gestori per l'anno 2023", rappresentano una percentuale ridotta degli impieghi in essere per gli investitori istituzionali nazionali, in particolar modo nei fondi pensione di natura contrattuale. Una situazione non semplice se si auspica in un contribuito positivo sul fronte occupazionale e produttivo del nostro Paese. Potrebbe pertanto essere opportuno dare slancio alla crescita del patrimonio investibile in economia domestica riconoscendo agevolazioni fiscali sui rendimenti generati dai fondi pensione sul modello dei PIR 4.0 (esenzione totale); 

- dare sviluppo all’istituto delle rendite previste dal Dlg. 252/2005: nel 2023, i soggetti che hanno attivato la prestazione finale in forma di rendita sono stati 574, un numero nemmeno paragonabile ai 62.103 iscritti che hanno optato viceversa per l’erogazione in forma di capitale (Relazione COVIP per l'anno 2023). Gli scogli da superare sono molteplici: se da una parte è bene sensibilizzare gli iscritti sulle dinamiche in atto nel contesto socio-sanitario del nostro Paese e sulle opportunità offerte dalle rendite, dall’altra si rende necessario sostenere il mercato di riferimento, a oggi estremamente concentrato e poco sviluppato, determinando coefficienti di trasformazione poco idonei per le platee di riferimento.

Giulia Sordi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

16/9/2024 

 
 
 

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