Pensioni, il sistema è sostenibile (purché le età siano coerenti)

Dati di bilancio alla mano, il sistema pensionistico italiano pare sostenibile e in grado di reggere nei prossimi anche al pensionamento dei numerosi baby boomer: la tenuta dei conti passa però anche da una seria revisione delle legge Monti-Fornero e dalla capacità di riorganizzare le politiche attive per il lavoro del Paese

Alberto Brambilla

Di fronte alla maggiore transizione demografica di tutti i tempi noti, che implica una riduzione della popolazione e soprattutto un minor numero di persone in età lavorativa, quali dovrebbero essere i requisiti e in particolare le età di pensionamento per garantire la sostenibilità del sistema pensionistico anche dopo il 2035, anno in cui tutti i cosiddetti baby boomer si saranno pensionati?

I dati di bilancio del 2020 e 2021 del nostro sistema pensionistico ci dicono che oggi il sistema è sostenibile e lo potrà essere anche tra 15 anni, quando le ultime frange dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980, coorti molto numerose tra i 700 e i 950mila nati ogni anno, e quindi “pesanti” in termini previdenziali, si saranno pensionati. Ma solo ad alcune precise e indifferibili condizioni. 

1) Correlare le età di pensionamento, attualmente tra le più basse d’Europa (circa 63 anni l’età effettiva in Italia contro i quasi 65 della media europea), all’aspettativa di vita che, da noi, è tra le più elevate a livello mondiale, evitando escamotage quali Quota 100, che di fatto ha favorito prevalentemente i dipendenti pubblici e il lavoro “nero”, e gli anticipi dei cosiddetti “gravosi”, invenzione italica che non trova riscontro ne nella scienza medica né in altri Paesi; 2) politiche di invecchiamento attivo con misure volte a favorire un’adeguata permanenza al lavoro delle fasce senior della popolazione. Questo secondo punto presuppone due ulteriori azioni: a) una riorganizzazione del lavoro che preveda, attraverso la modernizzazione dei contratti, di adeguare la tipologia dei lavori alle età delle persone impiegate evitando che a 65 anni si vada ancora sui ponteggi, come nel secolo scorso, o si facciano lavori pericolosi; b) l'intensificazione delle attività di prevenzione, intesa sia come mezzo per verificare lo stato di salute dei lavoratori attivi, anche al fine di ridurre gli infortuni sul lavoro, sia anche e soprattutto come capacità di progettare una vecchiaia in buona salute, classifica in cui l’Italia non brilla; 3) infine, puntare sulle politiche attive del lavoro, da realizzare di pari passo con un’intensificazione della formazione professionale nei cantieri e nei luoghi di lavoro.

Insomma, un serio cambio di rotta da parte del nostro Paese, che oggi vede la quasi totalità della spesa pubblica indirizzata verso sussidi e assistenzialismo e un’arcaica organizzazione del lavoro e dei propri modelli produttivi. Quindi è essenziale un giusto rapporto tra periodi di vita lavorativa (e dunque anche di contribuzione) e durata del trattamento pensionistico, così da evitare durate eccessive che penalizzino le giovani generazioni, sulle cui spalle grava il pagamento effettivo delle pensioni vigenti, di fatto a carico dei lavoratori che accedono al pensionamento a età regolari. Attualmente, oltre il 34% dei 16 milioni di pensionati beneficia del trattamento da oltre 20 anni e la metà di questi da oltre 30 anni: circa 476mila pensioni sono in pagamento da altre 40 anni tra settore pubblico e privato!

Per questi motivi occorre una revisione della legge Fornero: non una riforma, come qualcuno in modo gattopardesco vorrebbe fare, per non cambiare nulla ma una revisione in almeno 4 punti. Per la pensione di vecchiaia anticipata, la cosiddetta flessibilità in uscita, il punto di equilibrio è 64 anni di età, adeguata all’aspettativa di vita, e 38 anni di contribuzione, di cui non più di 3 di contribuzione figurativa, escluse maternità e riscatti; quindi, l’attuale Quota 102 in vigore quest'anno, ma aggiornandola con l'aspettativa di vita. Considerando che da quest’anno il 90% circa dei potenziali pensionati sono nel regime misto (contributivi dal 1/1/1996) e che la loro pensione per il 70% circa è appunto calcolata con il metodo contributivo, che prevede coefficienti di trasformazione in funzione dell’età, al fine di garantire un'equità di trattamento con i contributivi puri (quelli che hanno iniziato a lavorare dopo l’1/1/1996), sarebbe corretto prevedere anche per questo restante 30% di pensione retributiva il calcolo dell'assegno interamente con il contributivo. Questo sistema, che renderebbe attuarialmente sostenibile l'anticipo rispetto all'età di vecchiaia, peserebbe sull'assegno di chi anticipa l'uscita per circa il 3% l'anno; con un anticipo di 3 anni, a 64 anni, il trattamento pensionistico sarebbe del 9% inferiore a quello che si prenderebbe a 67 anni. Già oggi questa riduzione opera sul 70% della pensione quindi con questa proposta la si estenderebbe anche al restante 30%. Questa riduzione cala al 6% per 2 anni di anticipo, al 3% per un anno e si annulla al compimento dei 67 anni, adeguati alla aspettativa di vita. Del resto, non si tratta di una penalizzazione come qualcuno afferma; semplicemente si prende la pensione prima, e per 3 anni in più, quindi alla fine in media l’incasso pensionistico è lo stesso.

La seconda azione riguarda l’eliminazione definitiva dell’adeguamento alla speranza di vita dell’anzianità contributiva, un eccesso della riforma Monti-Fornero che paradossalmente consente il pensionamento a 67 anni e 20 di contributi, di cui magari 5 o più figurativi, mentre con 42 anni di lavoro lo vieta. Puntare sui 41 anni di anzianità sarebbe costoso e difficilmente proponibile per un Paese super indebitato come il nostro e dove, a differenza di altri Paesi, lavora poco più di un terzo della popolazione, contro oltre la metà di Francia e Germania, per fare un esempio.

Terzo punto la completa equiparazione dei “contributivi puri” con le regole fin qui descritte eliminando il vincolo di avere una pensione a calcolo pari almeno a 2,8 volte la pensione sociale per accedere al pensionamento anticipato e 1,5 volte per la vecchiaia, che costringerebbe a lavorare fino a 71 anni. Inoltre, per questi contributivi, sarebbe equo migliorare l’integrazione pensionistica nel caso di pensioni basse - eventualità che attualmente riguarda 3,8 milioni di pensionati (il 23%) - estendendo l’integrazione oggi fissata fino ai 468 euro dell’assegno sociale. Il meccanismo potrebbe essere il seguente: si fissa l’importo della pensione minima (supponiamo 630 euro); si procede a calcolare la pensione effettivamente maturata (supponiamo 280 euro); l’integrazione sarebbe pari alla differenza tra 630 e 280 euro, cioè 350 euro, che per premiare e incentivare il lavoro, andrebbero divisi per 35 e moltiplicati per il numero effettivo degli anni lavorati (supponiamo 25). Il risultato sarebbe una pensione integrata di 250 più 280 euro a calcolo, pari a 530 euro.

Il quarto punto è di vitale importanza per la tenuta dei conti e riguarda l’utilizzo dei fondi esubero, dei contratti di espansione e della isopensione al posto delle troppe anticipazioni da giungla pensionistica.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

22/3/2022

 
 
 

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