Rivalutazione delle pensioni, non facciamo scherzi!

Grazie alla perequazione automatica, i percettori di pensione saranno forse gli unici italiani in grado di contrastare (nel 2023) gli effetti dell'inflazione sul potere d'acquisto della propria rendita mensile. Come funziona l'attuale meccanismo di indicizzazione e come si è evoluto nel tempo? 

Alberto Brambilla

Buone notizie per i pensionati che saranno gli unici italiani a recuperare appieno il potere d’acquisto delle loro rendite, svalutato pesantemente in questi ultimi mesi.

Infatti, a decorrere dal prossimo 1 gennaio, le loro pensioni recupereranno tutta l’inflazione del 2022 che, secondo il comunicato Istat riferito a maggio 2022, ha registrato un aumento dello 0,9% su base mensile e una crescita del 6,9% su base annua. Secondo l'Ufficio parlamentare di bilancio, ipotizzando un’inflazione superiore di due punti rispetto al 5,8% previsto nel DEF per il 2022, la rivalutazione delle pensioni all’inflazione costerà allo Stato circa 32 miliardi lordi nei prossimi 3 anni (5,7 miliardi nel 2023, 11,2 nel 2024, 15,2 nel 2025): 32 miliardi che andranno a beneficio degli oltre 16 milioni di pensionati, la metà dei quali è già oggi parzialmente o totalmente a carico della collettività. In realtà, l’esborso per le finanze pubbliche sarà inferiore di almeno un quarto, perché sui pensionati, a partire da quelli che hanno pensioni superiori a 2-3 volte il minimo (1.050 o 1.575 euro) grava l’IRPEF che, nel 2021, è stata pari a 56 miliardi circa su un totale di 235 miliardi di spesa pensionistica (circa il 24%), per gran parte a carico dei 5 milioni di soggetti con rendite sopra 3 volte il minimo dato che, come visto, cla metà circa dei pensionati è parzialmente o totalmente assistita e, quindi, anche esente IRPEF.

Come si è giunti alla rivalutazione piena prevista dalla riforma del 1988 e disattesa per anni? È stato il governo Draghi, nella Legge di Bilancio per il 2022, dopo oltre 3 anni di rinvii, a ripristinare le rivalutazioni delle pensioni adottata dal governo Prodi nella manovra finanziaria del 1996, che prevedeva una rivalutazione per “scaglioni” del 100% fino a 4 volte l’importo minimo (2.097 a valori 2022), al 90% sulla quota da 4 a 5 volte il minimo (tra 2.097 e 2.622 euro) e al 75% sulla quota di pensione sopra tale ultimo importo. Questa rivalutazione che, nel nostro sistema a ripartizione fa parte del patto tra lavoratori e Stato (pago i contributi sui redditi che si rivalutano all’inflazione e percepirò una pensione che si rivaluta anch’essa all’inflazione), è stata mantenuta fino al 2010 dai governi D’Alema, Amato e Berlusconi. Poi nel 2011, iniziano i tagli selvaggi: il "Salva Italia" del governo Monti, all’interno della riforma Fornero, blocca per il 2012 e il 2013 l'indicizzazione per tutte le pensioni superiori a 3 volte il minimo. In pratica, il governo dei tecnici ha rivalutato le pensioni di quelli che non avevano mai versato i contributi o ne avevano pagati pochi lasciando a bocca asciutta i poverini che la pensione se l’erano pagata: cornuti e mazziati a tal punto che la Corte Costituzionale, con la sentenza numero 70/2015, dichiarò incostituzionale quel blocco e il governo Renzi dovette intervenire per restituire, seppur parzialmente e in ritardo, una parte del mal tolto ai pensionati tra 3 e 6 volte il minimo.

Poi tocca al governo Letta che cambia il criterio degli scaglioni, che consentono alle pensioni la rivalutazione corrispondente a ciascuna quota di pensione, e inserisce la rivalutazione a “fasce”: ne introduce 5 e a ciascuna corrisponde un'aliquota di rivalutazione pari al 100% fino a 3 volte il minimo, 90% da 3 a 4 volte, 75% da 4 a 5 volte, 50% da 5 a 6 volte e 17,84 euro fissi sulle altre fasce di pensione. A differenza degli scaglioni, nel caso delle fasce, l’intera pensione si rivaluta però in base alla percentuale più bassa. Esempio: un lavoratore che ha una pensione tra 5 e 6 volte il minimo avrà l’intera pensione rivalutata al 50%, mentre chi è sopra non recupera nulla. Il successivo governo Renzi rivaluta solo le pensioni fino a 3 volte il minimo e per le altre solo qualche punto percentuale, mentre Gentiloni è più generoso, lascia le 5 fasce ma con una rivalutazione maggiore.

Nel 2018 il governo giallo-verde pur di non tornare alla legge Prodi, così come prevedeva la Legge di Bilancio del 2016, portò le fasce da 5 a 7, con rivalutazione dell’intera pensione alla percentuale più bassa. Secondo l’Upb, circa 6 milioni di pensionati subirono un taglio di 3,6 miliardi, che Conte liquidò dicendo che si trattava di qualche euro al mese e neppure l'Avaro di Molière se ne sarebbe accorto; l'INPS, presa in contropiede, prima pagò gli assegni con il metodo Gentiloni  e poi, dopo le elezioni europee del maggio 2019 che portarono la Lega al 34%, richiese indietro i soldi con trattenute automatiche. Ma il primo governo Conte 1 non si limita a ridurre le rivalutazioni: addirittura taglia senza alcun criterio i cosiddetti pensionati d’oro che hanno il solo torto di avere pensioni sopra i 100mila euro lordi (meno di 60 netti); alla maggior parti di questi 36.000 sfortunati, se si fosse applicato il metodo di calcolo contributivo, vantato da Conte, si sarebbe dovuto addirittura aumentare la pensione! In questo caso la Consulta, smentendo sé stessa, disse che andava bene così, salvo ridurre il periodo dei tagli proposti da Conte, Salvini, Di Maio - gli stessi che oggi pretendono a gran voce di aumentare le pensioni - da 5 a 3 anni. Nientedimeno, la Lega, dopo il flop di Quota 100 che ci costa oltre 23 miliardi senza alcun risultato, propone di indicizzare le pensioni ogni 3 mesi. Forse una regolata e un maggior senso dello Stato e di rispetto dei giovani - su cui viene caricato, come fossero animali da soma, un debito pubblico insostenibile - non sarebbero male.

Quindi, da gennaio 2023 le pensioni verranno rivalutate all'inflazione del 2022 in modo automatico alla luce dell’attuale normativa, senza bisogno di ulteriori provvedimenti né di accantonamenti di bilancio. Del resto, negli ultimi 8 anni, a fronte di un’inflazione inferiore al 3%, le pensioni non sono state praticamente rivalutate nonostante nei calcoli di sostenibilità si consideri sempre un’inflazione di circa il 2% annuo. Ulteriori ripensamenti, oltre a essere ingiusti, sarebbero complicati sia per evitare un no della Corte Costituzionale sia perché di lì a pochi mesi ci saranno le elezioni. Ve li immaginate gli strilli della nostra politica pauperista e assistenzialista e dei sindacati se si dovesse tagliare l’indicizzazione? 

 Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali      

5/7/2022

 
 

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