Il precario stato di salute della sanità italiana

Il Settimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali offre un interessante spaccato anche sullo stato di salute della sanità pubblica e complementare del nostro Paese: mentre continua a crescere la spesa out of pocket sostenuta dalle famiglie italiane, l'assistenza sanitaria integrativa fatica a imporsi

Mara Guarino

Secondo quanto evidenziato dal Settimo Rapporto a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel 2018 - al lordo di benefici fiscali - sono stati più di 98,134 i miliardi di euro spesi per integrare le prestazioni pubbliche per pensioni, sanità e assistenza. Nel dettaglio, 44,96 miliardi (vale a dire il 45,7% del totale) sono stati destinati a cure e assistenza sanitaria sia diretta che intermediata da fondi e casse sanitarie; 33,98 miliardi sono di fatto stati assorbiti dalla “non autosufficienza” tra assistenza domiciliare o residenziale; 16,2 miliardi sono stati utilizzati per costruirsi una forma pensionistica complementare; 3,096 miliardi sono stati infine indirizzati a protezioni assicurative individuali.

Anche tenendo conto dei benefici fiscali previsti dalla normativa vigente, le proporzioni non cambiano e la cosiddetta spesa out of pocket si conferma la più significativa tra le voci  di  spesa  sostenute  per  il welfare  privato. Al netto dei detrazioni e deduzioni fiscali, gli italiani hanno infatti pagato di tasca propria servizi, prestazioni o prodotti di natura sanitaria per oltre 36 miliardi di euro. Valore in costante crescita negli ultimi anni e al quale bisogna oltretutto aggiungere anche quello della spesa intermediata, vale a dire 4,9 miliardi di costi sostenuti per contributi a fondi sanitari integrativi o premi di assicurazione.

Tabella 1 - La spesa privata per il welfare

Spesa per il welfare privato - Settimo Rapporto Itinerari Previdenziali

Fonte: Settimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Nello stesso periodo, la spesa per la sanità pubblica - finanziata dalla fiscalità generale - ha toccato quota  115,41 miliardi. Negli ultimi 5 anni, dal 2013 al 2018, è cresciuta del 4,87%, vale a dire poco più dell’inflazione (3,55%). Un aumento modesto, pur considerando tanto gli effetti del progressivo invecchiamento della popolazione quanto della riduzione della popolazione censita (-0,7%), principalmente “imputabile” alla crescita della spesa per consumi intermedi e acquisti di mercato. Diminuisce invece la spesa sostenuta per il personale, benché proprio la carenza di medici specialisti e di base, anestesisti e di personale infermieristico sia una delle principali criticità che incombono sul sistema; e ancora di più - come in parte sta già evidenziando l'emergenza "coronavirus" - lo sarà nei prossimi anni in virtù sia dell’impatto di Quota 100 sia, più in generale, dell’età media molto elevata delle maestranze attualmente impiegate nelle strutture ospedaliere italiane.

Ecco dunque che, lungi dall’essere (forse all’apparenza) freddi, i numeri con cui il Settimo Rapporto descrive la sanità pubblica e privata italiana testimoniano di un apparato statale che rischia di subire con difficoltà le pressioni esercitate dai nuovi trend demografici e di un’assistenza sanitaria integrativa ancora non abbastanza pronta a riempire adeguatamente possibili vuoti e zone d’ombra. Se è infatti vero che il servizio sanitario italiano può ancora definirsi di buon livello malgrado alcune palesi criticità (oltre a quelle già citate, vale la pena di ricordare, la lunghezza delle liste d’attesa e conseguenti ritardi nell’accesso alle cure, i fenomeni di migrazione sanitaria, la gestione delle risorse non sempre efficiente), lo è infatti altrettanto che sarà difficile in futuro superare queste difficoltà aumentando ulteriormente la spesa per il welfare. Welfare che, nel 2018, ha già assorbito una quota pari al 26% del PIL, il 56,62% delle entrate contributive e fiscali, e il 54,14% della spesa totale.

Ed ecco allora che, mentre sembra spiegarsi piuttosto facilmente perché gli italiani preferiscano sempre più pagarsi le cure di tasca propria, un’ulteriore riflessione conclusiva non può che spettare a un’assistenza sanitaria integrativa che, nella pesante assenza di una legge quadro, stenta a decollare. Basti pensare che dei circa 44,96 miliardi di euro spesi per la sanità privata nel 2018 solo il 10,5% è stato veicolato per il tramite di intermediari (fondi sanitari, compagnie di assicurazione e altri soggetti). La stima sugli iscritti è invece pari a circa 13,5 milioni di assistiti e offre un’ulteriore riprova del fatto che ancora molto si possa fare in termini di estensione della platea di beneficiari, utilizzando ad esempio lo strumento della contrattazione collettiva dove possibile e, in parallelo, accrescendo il grado di consapevolezza dei potenziali aderenti circa l’importanza di rivolgersi a intermediari di spesa qualificati.

Posto che un maggior ricorso a forme organizzate di intermediazione si tradurrebbe non solo in un minor costo per singoli e famiglie, ma anche in un più efficace controllo della qualità delle prestazioni (e una minore diffusione del fenomeno del “nero”, inesistente nell’ipotesi in cui la compagnia di assicurazione o il fondo sanitario sia chiamato a rimborsare a fronte della presentazione della relativa documentazione fiscale), viene allora da domandarsi cosa freni gli italiani dall’optare per soluzioni di spesa intermediata, sulla carta potenzialmente più vantaggiose dal punto di vista fiscale e organizzativo rispetto al dover sostenere in maniera del tutto autonoma esami, visite specializzate o prestazioni socio-sanitarie di altra natura?

Se una prima ragione è da individuare in una sorta di resistenza culturale, a non giovare secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali è poi senza dubbio la mancanza di una vera e propria disciplina sulla materia, sulla quale pendono periodicamente proposte o “minacce” di riordino e ridimensionamento, che tendono a a scoraggiare i cittadini desiderosi di regole chiare, certe e valide allo stesso modo per tutti. Un aiuto in questo senso potrebbe ad esempio venire dal superamento della “discriminazione” in termini di benefici fiscali tra lavoratori dipendenti e non dipendenti (autonomi, etc): mentre infatti i primi hanno la possibilità di dedurre fino a 3.615,20 euro, i secondi possono solo detrarre al 19% il contributo di adesione, fino a un massimo di 1.300 nel caso in cui scelgano di iscriversi a una società di mutuo soccorso. Di fatto, per poter beneficiare della deducibilità fiscale, i non dipendenti possono rivolgersi solo ai fondi sanitari di tipo A (quelli “doc”) con diritto al rimborso delle sole prestazioni che non siano ottenibili dal Servizio Sanitario Nazionale. Esperienza che, peraltro, i numeri ci dimostrano non cogliere l’interesse della popolazione italiana, considerata oltretutto la difficoltà di capire i limiti dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) da integrare all’interno di un sistema sanitario con profonde differenze da regione a regione.

A prescindere dagli strumenti con cui perseguirlo, l’obiettivo da rincorrere è comunque chiaro: a patto di un’efficace attività di coordinamento delle rispettive azioni (e convenzioni) per ottimizzare al massimo l’attività dei professionisti e l’utilizzo della strumentistica, il futuro della sanità italiana passa - anche - da un sano sviluppo dell’assistenza sanitaria integrativa.

Mara Guarino, Itinerari Previdenziali 

5/3/2020  

 
 

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