Il sistema sanitario nazionale non è in crisi: troppi sprechi e pochi che finanziano

Parlare di "crisi" è  improprio, ma il SSN è chiamato a fare i conti con alcune importanti problematiche, come lo scarso finanziamento e una gestione delle risorse non sempre efficiente 

Alberto Brambilla e Alessandro Bugli

Il giovane Sistema Sanitario Nazionale (40 anni, quest’anno) non è affatto in crisi, come spesso si sente troppo semplicisticamente affermare. Addirittura, secondo un recente studio Bloomberg, stiamo parlando della terza sanità del mondo. Prima di entrare nel merito è utile ricordare le caratteristiche essenziali del nostro SSN:

  • rientra nel modello universalistico a cui tutti possono accedere gratuitamente; negli ultimi anni, anche a causa di deficit annuali per i quali alcune regioni sono state commissariate, si è prevista una compartecipazione (ticket) legata al reddito con una serie ampia di eccezioni;
  • è finanziato tramite la fiscalità generale e qualche tributo di scopo (es. IRAP e contributo SSN su assicurazioni RCA); il contributo sociale di scopo pari al 5% del reddito è stato soppresso dalla riforma Visco del 2000 e sostituito, ma solo in parte, con l’Irap.

E così, come è giusto, tutti ne beneficiano ma purtroppo solo pochi contribuiscono. Per il 2016 la spesa sanitaria come anticipato nel Quinto Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale di Itinerari Previdenziali è stata pari a 112,542 miliardi, con una spesa media pro capite di circa 1860 euro. Ma come si finanzia questa spesa? Sulla base dei dati dell'Approfondimento sulle dichiarazioni Irpef e Irap relative ai redditi del 2015 (dichiarazione presentata nel 2016 ed elaborata dall’agenzia delle entrate nel maggio 2017) i dichiaranti sono stati  40,77 milioni su 60,5 milioni di abitanti, di cui solo 30 milioni circa hanno dichiarato reddito positivo; di questi, ii primi 18.542.204 contribuenti (pari al 45,48% del totale, di cui 6.704.584 di pensionati) dichiarano redditi lordi da 0 a 15.000 euro, quindi vivono con un reddito medio mensile di circa 625 euro lordi, meno di quello di molti pensionati (mediana di 7.400 € circa). Questi 18.542.204 contribuenti, cui corrispondono 27,59 milioni di abitanti, anche grazie alle detrazioni, pagano 185 euro l’anno di Irpef; tenendo conto della spesa nazionale pro capite, per questi primi tre scaglioni di reddito, la differenza tra l’Irpef versata e il solo costo della sanità ammonta a 50,13 miliardi, che sono a carico degli altri contribuenti. E qui parliamo solo della sanità, ma poi ci sarebbero poi tutti gli altri servizi di Stato e Enti locali che qualche altro contribuente si dovrà accollare.

Esistono quindi due problematiche: la prima è appunto lo scarso finanziamento dovuto in gran parte all’evasione fiscale e contributiva; la seconda legata al fatto che la sanità è gestita dalle Regioni, il cui budget impegnato in sanità supera il 70% dell’intera spesa regionale, e dalle aziende sanitarie locali. Non siamo distanti dal vero se affermiamo che in Italia esistono 20 sanità diverse (ma forse anche più di 100, perché spesso le unità locali applicano protocolli differenti tra loro anche a livello della stessa regioni), con costi gestionali e per prodotto o linee d’intervento assai differenti (costi standard, un sogno).

A fronte di questa difficoltà di sistema, anziché cercare di tenere sotto controllo la spesa con l’utilizzo dei costi standard, il monitoraggio della spesa per il personale e la verifica dei troppo frequenti “viaggi della speranza” da alcune regioni ad altre (si noti che le differenze di costi pro capite tra regioni si aggirano attorno al massimo al 6%), qualche politico o sociologo (forse anche per le ormai perenni campagne elettorali) pensa che chi paga molte tasse, e quindi ha redditi alti, debba essere escluso dal criterio universalistico. A parte il fatto che già l’adozione dei ticket potrebbe presentare qualche problema di natura costituzionale, ci sono altre considerazioni che cassano queste proposte. Anzitutto, i Paesi sviluppati senza universalismo sanitario spendono anche di più dell’Italia per garantire assistenza alle fasce deboli della popolazione (si veda il dato USA, censito da OCSE, ealth at Glance 2017); inoltre, laddove passasse l’idea di escludere le famiglie con redditi, supponiamo oltre i 55 mila euro lordi (circa 33 mila euro netti se non si hanno figli all’università o a scuole private se no sono ancora meno) significherebbe escludere quel 11,97% di cittadini che pagano ben il 53,7% di tutta l’IRPEF e che, dopo essersi pagata la sanità propria e quella delle persone a carico (l’imposta media pagata dai redditi tra 55 e 100 mila € è di 15 mila €), dovrebbero dunque arrangiarsi ricorrendo a cure private. Facile immaginare la giusta obiezione: se ci si deve pagare le cure, perché le si deve pagare due o più volte? Perché pagare le imposte se sanità, scuola privata e università si devono pagare per motivi di reddito?  

Fonte: OCSE, Health at a Glance, 2017

Venendo a cosa si possa fare per garantirci un buon sistema sanitario nazionale, oltre a far pagare le tasse a tutti (considerazione facile, ma potenzialmente risolutiva del problema), si tratta in primis di continuare a razionalizzare le singole voci di spesa e trovare soluzioni utili a superare i divari regionali, non tanto in termini di spesa (si vede nella tabella), bensì in termini di efficientamento dell’utilizzo delle risorse stesse.

Fonte: Quarto Rapporto – Il bilancio del sistema previdenziale italiano (2017) – Itinerari Previdenziali

Descritto il quadro pubblico, passiamo all’analisi della spesa privata per cure e assistenza e al ruolo della sanità integrativa o sarebbe meglio definirla “complementare”; ciò, anche qui, per evitare l’interpretazione dei politici e sociologi sopracitati secondo i quali i fondi sanitari possono e debbono operare solo per le prestazioni non ricomprese nei livelli essenziali di assistenza; ipotesi illogica e antieconomica sia per il SSN sia per gli utenti e che è negata dallo scarso successo dei cosiddetti fondi doc di cui al d.lgs. 502/1992.

Guardando al grafico sulla spesa pubblica e privata si scopre, a colpo d’occhio, che l’integrazione privata è tanto più marcata quanto più è importante l’intervento pubblico. Per capirci, è agevole smentire il facile assunto per cui il ricorso alla sanità privata e quella “complementare” trovi linfa e predomini là dove ci sia un vuoto dell’intervento dello Stato. I dati dimostrano esattamente l’opposto. Dove si spende di più per sanità pubblica, la popolazione è per definizione più attenta e indotta a migliorare il proprio status e a garantirsi cure e assistenza a 360 gradi. Ciò pare riprova del fatto che un ritrarsi dello Stato nella materia della salute non può che essere un danno anche per il comparto della sanità “complementare”. La vera risposta non può che essere, quindi, il continuare nella ricerca di sinergie pubblico privato, per un moderno e maturo welfare mix.

Venendo ai numeri. Il dato sulla spesa privata ufficializzato dal nostro Centro Studi, registrato secondo le regole di stima comunemente accettate, ammonta a 36 miliardi (si badi però che il valore di cui si discute è, in prevalenza, l’esito dei questionari anonimi campionari di spesa compilati dalle famiglie, il cui esito per sua definizione può sensibilmente variare in ragione della coorte dei destinatari e di coloro che poi rispondano effettivamente ai quesiti; ammesso e non concesso che sia chiaro quale sia il dato effettivamente da valorizzare). Tuttavia, secondo una stima di Itinerari Previdenziali e di altri organismi, tale spesa OOP supera i 40 miliardi a carico di singoli e famiglie per accedere a prestazioni sanitarie a titolo privato. Quaranta miliardi però, la cui stragrande maggioranza (l’88%) è sostenuta direttamente dal singolo fruitore dei servizi, senza rivolgersi a intermediari (quali fondi sanitari o compagnie di assicurazione) e spesso senza ricevere la documentazione fiscale richiesta dalla legge. Si tratta sopratutto di un problema culturale rispetto ad altre realtà nazionali ben più virtuose che testifica il fenomeno della povertà educativa, causa di molta povertà economica e scarsa salute, ma anche di un impegno pressoché nullo delle istituzioni: prova ne è che manca pure una legge in materia. E i restanti circa 4 miliardi di spesa intermediata? Passano, per la gran parte, per assicurazioni e per il tramite di enti, casse e società di mutuo soccorso, normalmente registrati presso la “segretissima” e non accessibile al pubblico anagrafe del Ministero della Salute. Nella speranza che il trend di crescita della sanità “complementare” prosegua nell’interesse di tutti, va rilevata la perdurante mancanza di un set di regole minime e certe per l’intero settore.

L’assenza di regole certe per il settore della sanità “complementare” rischia di condurre a danni per i singoli e la collettività. L’arrivo del più generale Codice del Terzo Settore non sembra di per sé in condizione di rispondere (se non in parte) alle esigenze manifestate. A oggi, ad esempio, non esistono previsioni dedicate e puntuali alla solvibilità della generalità dei fondi sanitari, alcuni dei quali risultano di estrema serietà sotto tale aspetto, mentre altri – sfruttando il vuoto legislativo – sono ad alto rischio di tenuta date le variabili demografiche e i ridotti numeri degli iscritti. Resta, poi, il tema dell’esclusione formale del comparto assicurativo dalle agevolazioni fiscali dedicate al settore della sanità integrativa. Esclusione peraltro solo formale, ritornando in gioco le stesse in forma di impropria “riassicurazione” o “assicurazione collettiva” delle medesime realtà e dei loro iscritti. Perché non superare anche questo limite culturale e provare a ragionare su un intervento regolamentato delle compagnie anche in questo settore (come avvenuto, ad esempio, in tema di PIP nella previdenza complementare)?

Alberto Brambilla e Alessandro Bugli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

20/2/2018

 
 

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