Prevenzione e promozione della salute per la sostenibilità del SSN (e non solo)

"Prevenire è meglio che curare": non solo un vecchio adagio pubblicitario, ma anche una massima di buon senso che, a maggior ragione sotto la spinta della demografia, diventa indispensabile per allentare la pressione sul nostro Servizio Sanitario Nazionale, migliorando al contempo salute e qualità della vita degli italiani di tutte le età

Mara Guarino

È un fatto abbastanza consolidato quello che vede l’Italia primeggiare per longevità nelle classifiche europee e mondiali: come ricordato anche dall’ultimo Rapporto Istat sul Bes, al 2023 la speranza di vita alla nascita nel nostro Paese è pari a 83,1 anni, con un incremento di circa 6 mesi rispetto al 2022 che ci riavvicina ai livelli pre-COVID e con la sola Spagna (84 anni) a fare meglio in UE. Altro fatto abbastanza acclarato è tuttavia anche quello che vede la Penisola arretrare quando si parla di aspettativa di vita senza limitazioni funzionali (a 65 anni), la cui soglia al 2023 si attesta a quota 10,6: il che vuol dire, al netto delle differenze di genere, trascorrere mediamente gli ultimi 7-8 anni della propria vecchiaia senza godere di piena autonomia – quando non addirittura di buona salute – nello svolgimento delle normali attività quotidiane. 

Come spiegare questo divario? Se complesso è il fenomeno e molte sono le chiavi di lettura – socio-sanitarie, politiche, economiche e culturali - destinate a intrecciarsi tra loro, vale senza dubbio cogliere l’occasione per fare una riflessione sulle attività di prevenzione, che in molte economie avanzate tendono (anche per logiche di mercato) a lasciare il passo a un approccio più orientato alla cura che alla promozione della salute. 


Morti evitabili e fattori di rischio: qualche spunto sul tema della prevenzione

Utile ancora una volta partire dai dati e, in particolare, dalla nozione di mortalità evitabile (prevenibile e trattabile) che fa riferimento a tutti quei decessi – monitorati tra persone di età compresa tra gli 0 e i 74 anni – che potrebbero essere ridotti in maniera significativa grazie, rispettivamente, alla diffusione di stili di vita più salutari e al contenimento di determinati fattori di rischio ambientali e comportamentali, e a un’assistenza sanitaria adeguata e accessibile. Per fare un esempio concreto, a livello europeo, tra le principali cause di decessi prevenibili spiccano il cancro ai polmoni, le cardiopatie ischemiche e i disturbi alcol-correlati, mentre tra quelle trattabili figurano, insieme alle cardiopatiche ischemiche, anche il cancro del colon-retto, il tumore al seno e le malattie cerebrovascolari. 

Al 2021, il tasso standardizzato di mortalità evitabile per il nostro Paese è risultato pari a 19,2 per 10mila residenti: scomponendo l’indicatore, si ottiene in particolare un tasso di 12,8 per 10mila residenti per la mortalità prevenibile (che oggi ricomprende anche quella da COVID-19) e un valore di 6,4 decessi per 10mila residenti per quella trattabile. Positivo il confronto con la media europea, il cui tasso è pari a 29,4 per 10mila residenti; ampia la distanza di genere con valori decisamente più elevati tra gli uomini, tra i quali risultano in effetti più diffusi alcuni comportamenti a rischio come abuso di alcol, propensione al fumo, alimentazione non adeguata (scarso consumo di frutta e verdura) etc, non di rado associati tra loro. L’attenzione ai comportamenti più salutari tende d’altro canto a essere sensibile a diverse variabili socio-demografiche, tra cui anche il titolo di studio: a titoli di studio più elevati tende cioè a essere associata una maggiore attenzione a uno stile di vita sano. 

È del resto la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità a stimare che circa l’80% delle patologie cardiovascolari, almeno il 40% dei tumori e la quasi totalità dei casi di diabete di tipo 2 potrebbero essere prevenuti “semplicemente” cambiando gli stili di vita, o comunque agendo con interventi personalizzati e mirati sui possibili fattori di rischio, come obesità e sedentarietà. Quanto al primo punto, sempre il Rapporto Bes ci dice ad esempio che, tra gli over 18, almeno il 44,6% degli italiani si trova in una condizione di eccesso di peso (1 su 10 è propriamente obeso). Sempre nel 2023 ammonta al 34,2% la quota di persone che dichiara di non svolgere alcuna attività fisica nel proprio tempo libero; quasi 2 italiani su 10 fumanomentre il 15,6% (entrambi i dati sono stimati tra la popolazione da 14 anni in su) ha manifestato l’abitudine al consumo a rischio, cioè non moderato, di bevande alcoliche. Se, come indicano gli studi scientifici, agire su questi fattori può generare impatti enormi in termini di riduzione di morbidità, disabilità e mortalità vien da sé che sensibilizzare ed educare a comportamenti più salutari significa agire nell’interesse  sia del singolo che dell’intera collettività. Una questione di sostenibilità, anche economica, se si pensa alle risorse che si potrebbero potenzialmente risparmiare e, quindi, indirizzare “meglio” e altrove, dalla ricerca al miglioramento della qualità dei servizi offerti. 

 

La promozione della salute: una questione di sostenibilità economica e sociale

Giusto per avere un ordine di idee, nel 2022 la spesa sanitaria italiana è risultata pari a 131,103 miliardi di euro, valore rimasto grosso modo stabile per il 2023 e che l’attuale esecutivo si è impegnato a incrementare nel triennio 2024-2026, con il duplice obiettivo di valorizzare maggiormente il personale sanitario e di rafforzare i piani operativi delle Regioni per ridurre le liste di attesa. Benché l’Italia non svetti nel confronto internazionale (stando a Eurostat, sono 271 i miliardi della spesa pubblica sanitaria francese e 423 quelli della spesa tedesca), è evidente che sia davanti a cifre già rilevanti, soprattutto se si pensa al fatto che la sanità pubblica grava sulla fiscalità generale, su cui pesa un debito pubblico prossimo a sfiorare i 3.000 miliardi, e comunque destinate a salire ulteriormente sotto la spinta del progressivo invecchiamento della popolazione, in assenza di interventi adeguati, tra cui quelli riguardanti proprio la sfera della promozione della salute. 

Eppure, sempre secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili riferiti al 2021, solo circa il 7% della spesa sanitaria nazionale è stato destinato ad attività di prevenzione, a fronte dell’ancora più basso 6% della media europea e del 10,3% fatto toccare dalla virtuosa Austria: percentuali oltretutto “gonfiate” dalla pandemia di SARS-CoV-2 (la media UE era del 3,5% nel 2020). Il nostro Paese è dunque ottavo in UE ma scende al decimo posto se si considerano i valori assoluti, con l’Italia che ha speso in prevenzione 193,26 euro per abitante contro i 213,18 investiti invece in Europa. D’altro canto, anche lì dove presenti, i nostri connazionali non sembrano cogliere a pieno la potenzialità di alcuni programmi utilissimi, come ad esempio quelli di screeningdei tumori. Se già prima della pandemia i tassi di screening per il carcinoma del collo uterino e per il tumore del colon retto in Italia erano sensibilmente inferiori alla media UE, la riconfigurazione dei servizi sanitari in epoca COVID ha avuto un impatto importante sull’adesione della nostra popolazione a queste iniziative, con volumi oggi in recupero ma, anche quando superiori ai valori pre-pandemici, spesso ancora distanti dalle coperture auspicate e raccomandate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Ed è forse proprio qui che va compiuta la vera svolta in una direzione che, garantendo non solo sostenibilità economica ma anche sociale ai nostri servizi sanitari, vada oltre la prevenzione stessa per sposare il più ampio concetto di promozione della salute, intesa come quel “processo che consente alle popolazioni di esercitare un maggiore controllo sulla propria salute e migliorarla”. 


Dal concetto di prevenzione a quello di promozione della salute

Come? Anche attraverso processi educativi che accrescano le conoscenze dei cittadini in materia e li aiutino pertanto a prendere consapevolmente decisioni utili a mantenersi quanto più possibile in salute. 

Come già visto, l’attenzione ai comportamenti più salutari tende d’altro canto a essere maggiore tra le persone con titolo di studio più elevato. Un esempio significativo tratto sempre dall’ultimo Rapporto Bes Istat che, per la prima volta, esamina gli indicatori di mortalità declinandoli sul 2020 (ultimo anno disponibile) anche per titolo di studio: parametro rispetto al quale anche il tasso di mortalità evitabile risulta particolarmente variabile. Il valore è infatti pari a 39,6 decessi per 10mila residenti nella popolazione con titolo di studio più basso (licenza elementare o meno), mentre scende a 20,3 nella popolazione con titoli di studio più alti (laurea o più). I maschi meno istruiti hanno una mortalità circa 2,3 volte superiore rispetto a quelli che lo sono di più. Una dinamica certo correlata anche a fattori socio-economici ma che dà comunque riprova dell’importanza dell’educazione edunque, di riflesso di politiche sanitarie improntate tanto alla riduzione dei divari all’accesso a cure mediche di qualità quanto alla prevenzione e all’adozione di stili di vita salutari. 

Figura 1 - Indicatori di mortalità Bes per titolo di studio e sesso: tassi standardizzati per 10mila residenti in Italia 

Figura 1 - Indicatori di mortalità Bes per titolo di studio e sesso: tassi standardizzati per 10mila residenti in Italia

Fonte: Rapporto Bes 2023, Istat

Senza trascurare altre vie, come efficientamento del SSN (si pensi ad esempio al discusso tema della medicina territoriale) e maggiore valorizzazione delle coperture integrative, la promozione della salute, magari a cominciare fin dalle scuole dell’infanzia, diventa quindi una chiave per garantire una maggiore sostenibilità economica e sociale della nostra sanità. 

Stressando il concetto, aspettare che le persone si ammalino e si rivolgano a pubblico o privato per farsi curare è una strategia costosa in termini economici e rischiosa in termini di risultati garantiti. Anche se certo non a tasso zero, l’adozione oggi di politiche che incentivino comportamenti salutari potrebbe portare un domani a un numero minore di persone da curare o, se non altro, da trattare per patologie che potrebbero essere prevenute. Per riuscire serve però un importante cambiamento culturale e, soprattutto, l’impegno di tutti, per arrivare a un rinnovato modello sanitario, sociale e anche di welfare che sposti l’accento dalla cura alla prevenzione, intensa in senso ampio come mix di buone pratiche finalizzate al benessere, alla longevità e all’invecchiamento attivo dell’intera popolazione. 

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

14/10/2024

 

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