Lavoro femminile, gender gap e strumenti di work-life balance

Il mercato del lavoro italiano, ancor più se confrontato con l'andamento di quello europeo, offre segnali contrastanti in materia di occupazione femminile: il biennio 2017-2018 evidenzia un tasso di occupazione in crescita, ma persistono al contempo chiari segnali di difficoltà per le donne, come una più spiccata propensione alla rinuncia a cercare lavoro per via del peso delle responsabilità familiari

Federica Roccisano

Nel 2017 sono state circa 9,5 milioni le donne occupate in Italia, 120mila in più dell’anno precedente e 500mila in più del 2007. Tuttavia, la condizione lavorativa delle donne italiane è ancora molto distante dal dato medio europeo: con questo intento l'Osservatorio sul mercato del lavoro curato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali indaga i principali indicatori relativi alle diseguaglianze di genere nel mercato del lavoro, operando un confronto con il contesto internazionale e ricercando le ragioni della distanza tra il dato italiano e quello europeo.

Rispetto all’occupazione femminile, nonostante il 2017 sia stato un anno positivo, la distanza tra la percentuale di donne occupate in Italia (48,9%), e quella della media dei Paesi europei (62,4%) è ancora molto ampia con un valore di 13,5 punti percentuali, mentre nel caso dell’occupazione maschile la differenza tra i due dati, rispettivamente il 67,1% per l’Italia e il 72,9% per la media dei Paesi europei, è solo pari a 5,8%. Questo dato colloca l’Italia, insieme alla Grecia, nel gruppo dei Paesi nei quali la forbice tra i tassi di occupazione maschile e femminile (gender employement gap) è tra i più elevati; mentre i Paesi del Nord e dell’Est Europa hanno valori decisamente migliori e gli altri Paesi del Mediterraneo (Spagna, Portogallo e Cipro) si avvicinano ai valori medi europei con un tasso di occupazione femminile compreso tra il 55% della Spagna e il 64,8% del Portogallo e una distanza meno marcata rispetto all’occupazione maschile.

Anche la disoccupazione femminile presenta dati più allarmanti in Italia (12,4%), rispetto alla media dei Paesi europei (7,90%), con particolare riguardo nel caso delle giovani donne di età compresa tra i 15-24 anni che, nel 2017, sono quasi il doppio del dato europeo, registrando un valore del 19,7% a fronte dell’11,1% della media dei Paesi europei.

Quali le ragioni di questo ritardo? E quali i possibili ostacoli da rimuovere per incrementare l'occupabilità delle donne in Italia? Proprio come l'Osservatorio, proviamo ad approfondire alcuni aspetti chiave delle fasi della vita lavorativa delle donne: entrata, permanenza e carriera, uscita.

 

L’accesso al mondo del lavoro

Il primo gap che si evidenzia, al momento dell’accesso al mondo del lavoro, è quello relativo alla formazione: nel 2017 le donne laureate in Italia sono il 19,1%, a fronte del 29,9% della media dei Paesi europei, mentre gli uomini laureati sono il 13,9% in Italia e il 25,9% in Europa. Nonostante gli obiettivi posti dalla strategia di Lisbona, che prevedono d raggiungere entro il 2020 una percentuale di laureati pari ad almeno il 25% della popolazione, l’Italia presenta un ritardo ancora molto marcato, che si traduce in numeri differenti di laureati che hanno un lavoro: nella media dei Paesi europei lavora l’80% delle donne laureate, in Italia il 74,7%. L’unico Paese che registra un dato peggiore dell’Italia è la Grecia dove le donne laureate che lavorano sono il 65,2%, mentre il dato più alto di occupate con laurea si registra in Romania (86,4%).

Una considerazione sulle azioni possibili da mettere in campo per contrastare questo dato fa riferimento alle cosiddette materie STEM, termine che deriva dall’acronimo inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics e che indica i percorsi universitari nelle materie scientifiche. Nel 2017 in Italia solo il 17% delle donne ha scelto questo percorso (gli uomini il 36%), mentre la maggior parte (45%) ha scelto le materie umanistiche. Agire per migliorare questo dato permetterebbe un recupero del divario di genere grazie all’occupazione generata nei settori ad alta tecnologia che, secondo uno studio condotto dall’Istituto Europeo per l’Eguaglianza di Genere, dovrebbero essere di circa 7 milioni entro il 2025.

 

I costi del lavoro: il peso delle responsabilità familiari grava ancora sulle donne

La scelta tra tempo di vita e tempo di cura è uno dei fattori che maggiormente discrimina le opzioni occupazionali tra i generi: nel 2017 le responsabilità familiari hanno “costretto” a non lavorare l’11,7% delle donne italiane e l’8,1% delle donne nella media dei Paesi europei. Se si considera la sola cura dei figli o dei componenti non autosufficienti della famiglia diventa inattivo il 6,9% delle donne in Italia, a fronte del 4,9% della media dei Paesi europei. Tra le ragioni di questa costrizione vi è certamente la scarsa presenza dei servizi dedicati all’infanzia. Infatti, solo nel 2016 l’Italia è riuscita a registrare una percentuale del 34% dei minori di 0-3 anni inseriti in contesti educativi, andando così a rispettare gli Obiettivi di Barcellona programmati nel 2002 dalla Commissione Europea e che prevedono un inserimento del target minimo del 33%. Tuttavia, rimangono ancora fuori dal sistema educativo circa i due terzi dei minori, un valore alto e che rende “costosa” la scelta tra lavoro e famiglia per le donne italiane che, per il 22,8% dei casi, hanno attribuito a ragioni economiche la mancata iscrizione dei propri figli ai sistemi educativi, mentre nella media dei Paesi europei solo il 16,2% delle donne ha dato questo tipo di risposta.

Per le donne che in Italia superano gli ostacoli iniziali e riescono a inserirsi (o restare) nel mercato del lavoro vi è però una differenza salariale (gender pay gap) rispetto agli uomini minore di quanto avviene nella media dei Paesi europei. Infatti, nel 2016 in Europa le donne hanno percepito un salario inferiore del 16,2% rispetto ai colleghi uomini, mentre in Italia il divario è stato pari al 5,3%: un dato molto basso, che diventa il 54%, peggiorando in maniera decisa, nel caso della differenza dei guadagni delle lavoratrici autonome rispetto ai loro colleghi uomini. Allo stesso modo, rispetto alle possibilità di carriera, in seguito alla legge 210/2011, detta Golfo Mosca, negli ultimi anni in Italia la percentuale delle donne presenti all’interno degli organi delle società quotate in Borsa è aumentata, passando dal 3,2% del 2007 (nella media dei Paesi Europei era pari al 10,4%) al 34% nel 2017, mentre la media dei Paesi Europei è rimasta al 25,3%. Tuttavia, sono solo il 2,5% le donne che occupano posizioni apicali e dirigenziali, la metà di quello registrato in Germania (4,9%), e decisamente inferiore al l’8,4% del Regno Unito.

Differenze e ostacoli che allontanano l’accesso al mondo del lavoro, generano diseguaglianze conseguenti anche al momento dell’uscita e, quindi, della pensione. Il dato relativo alle differenze delle indennità di pensione percepite (gender pension gap) restituisce in realtà un quadro per le donne meno grave in Italia che nella media dei Paesi europei: a partire dai dati OECD si può stimare che in Italia le donne ricevono una pensione media pari a 1.126 euro, inferiore del 33,1% del valore percepito dagli uomini, mentre nella media dei Paesi europei la distanza è del 38%. Ma se si va a considerare la distanza rispetto ai soggetti coperti dal sistema previdenziale, sarà possibile evidenziare, ancora una volta, un ritardo di opportunità per le donne in Italia rispetto a quanto avviene in Europa. Infatti, in Italia è coperto dal sistema l’83,9% delle donne, il 15,4% in meno degli uomini, mentre nella media dei Paesi europei la differenza tra i due generi è pari al 7%, un valore dimezzato rispetto al caso italiano.

 

È possibile ridurre il divario di opportunità lavorative tra i generi?

Negli ultimi anni sono state molteplici le raccomandazioni promosse dalla Commissione Europea in direzione della riduzione delle differenze di genere nei Paesi membri. Pur non senza criticità, anche l’Italia ha pertanto recentemente attivato diverse azioni di promozione della vita lavorativa delle donne: ne sono esempio sia il nuovo congedo di maternità che, con la legge di Bilancio per il 2019, permette alle future mamme di rimanere al lavoro fino alla data del parto e godere poi del congedo di maternità per i 5 mesi successivi, sia il congedo per i papà, diventato obbligatorio, e che prevede fino a cinque giorni di astensione al lavoro anche per i padri.

Proprio perché la strada è ancora lunga, oltre alle azioni messe in campo dai livelli istituzionali, vanno considerate anche le diverse opzioni che iniziano ad essere messe in atto anche in Italia e che provano a invertire la rotta della diseguaglianza di genere. È il caso delle imprese che investono in strumenti lavorativi innovativi, quali lo smart working e quindi la possibilità di lavorare da casa o da qualsiasi altra sede grazie all’utilizzo di tecnologie informatiche innovative, oppure in azioni di welfare aziendale e di cosiddetto secondo welfare. In particolare da un’analisi su questo tipo di azioni si evidenzia una buona percentuale (41%) di piani di welfare aziendali a favore della conciliazione dei tempi di vita e tempi di lavoro delle dipendenti, nei  quali trovano spazio i permessi aggiuntivi retribuiti per maternità/paternità (13,5%), le integrazioni complete al congedo di maternità/paternità (12,0%), e, seppure in maniera residuale, interventi a vantaggio di posti per asili nido convenzionati (0,6%) o aziendali (0,3%), scuole materne e dopo scuola (0,3%) e reperimento baby sitter (0,3%).

La promozione e diffusione di strumenti innovativi, quali i piani di welfare aziendale, associati a politiche di sgravio del carico di responsabilità che pesa inn particolar modo sulle donne, potrebbero contribuire a ridurre la distanza tra i generi in termini di opportunità e migliorare così quantità e qualità dell'occupazione femminile in Italia avvicinando il nostro Paese al resto d'Europa. 

Federica Roccisano 

8/4/2019

 

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