Povertà economica, dimensione e soluzioni politiche

Siamo sicuri che le risposte date finora dalla politica solo in termini di nuove prestazioni assistenziali siano quelle giuste? L’importanza di comprendere le effettive dimensioni della povertà economica e le cause del fenomeno per intervenire con risposte davvero efficaci 

Michaela Camilleri

Negli ultimi anni si è parlato molto spesso di una crescita della povertà economica delle famiglie italiane nel nostro Paese, fatto che ha convinto la politica ad aumentare le risorse stanziate per questo problema senza peraltro disporre di un’analisi delle cause e un progetto preciso. Così è stato per il Reddito di Inclusione di Renzi e Gentiloni e così anche per il Reddito di Cittadinanza, una delle misure bandiera di questo Governo, dichiaratamente pensato soprattutto con l’obiettivo di “contrastare la povertà e le disuguaglianze”. Partendo dai dati Istat relativi alla povertà, a volte strumentalizzati nel dibattito politico (ma anche mediatico) ai soli fini elettorali e propagandistici, l’analisi che segue si pone l’obiettivo di ragionare non solo sulla dimensione del fenomeno, che potrebbe essere quantomeno riconsiderata, ma soprattutto sulle cause e, di conseguenza, sulle soluzioni implementate finora dalla politica. 

 

I dati relativi alla povertà in Italia

Nell’ultima rilevazione diffusa lo scorso luglio e riferita al 2017, l’Istat stima che 1 milione 778mila famiglie (pari al 6,9% delle famiglie residenti in Italia), per un totale di 5,058 milioni di individui (8,4% dell’intera popolazione), siano in condizione di povertà assoluta (intesa come impossibilità di accedere a un determinato paniere di beni e servizi considerato essenziale per uno standard di vita minimamente accettabile). Dieci anni prima questi stessi valori erano pressoché dimezzati: nel 2007 l’Istituto registrava 823mila famiglie povere, con un’incidenza del 3,5% sul totale delle famiglie italiane allora residenti, che corrispondevano a 1 milione  789mila soggetti (pari al 3,1% della popolazione). Per dare un riferimento quantitativo, tenuto conto che le soglie si differenziano per composizione della famiglia, area geografica e tipo di comune di residenza, nel caso di un adulto di età compresa tra i 18 e i 59 anni che vive solo, ad esempio, la soglia di povertà assoluta (al di sotto della quale un soggetto è considerato povero) è pari a 826,73 euro mensili se risiede in un’area metropolitana del Nord, valore che scende a 742,18 euro se vive in un piccolo comune settentrionale o a 560,82 euro se risiede in un piccolo comune del Mezzogiorno. 

Anche la povertà relativa (il cui parametro di riferimento è, invece, la spesa media pro-capite per ogni famiglia di due componenti, pari a circa 1.085 euro nel 2017) è risultata in crescita nel periodo 2007-2017:  le famiglie in questa condizione sono passate da poco più di 2 milioni a 3 milioni 171mila (con un’incidenza  sul totale delle famiglie residenti che è aumentata dal 9,9% al 12,3%), per un totale di 6 milioni di individui nel 2007 e oltre 9 milioni nel 2017 (che corrispondono rispettivamente al 10,5% e al 15,6% dell’intera popolazione).

Ma come si arriva a questi numeri? Le stime di povertà si basano sui dati dell’indagine “Spese per consumi delle famiglie”. Si tratta di un’indagine che nel 2017 ha coinvolto circa 490 comuni e 17.000 famiglie. Oggetto della rilevazione sono state le spese sostenute dalle famiglie residenti per acquistare beni e servizi destinati al consumo familiare o per effettuare regali a persone esterne della famiglia (inclusi i cosiddetti autoconsumi, ossia i beni provenienti dal proprio orto e dalla propria azienda agricola). In altre parole, in tale definizione le spese per generi alimentari, bevande alcoliche, tabacchi, abitazione, utenze, istruzione, trasporti, sanità, cultura, ristorazione, etc. La rilevazione è condotta in tre step: l’intervista iniziale per rilevare caratteristiche della famiglia e dell’abitazione; l’auto-compilazione di un diario cartaceo sul quale la famiglia registra le spese per un periodo di 14 giorni; l’intervista finale per rilevare altre spese familiari. Semplificando, nella pratica, si tratta di una sorta di “autocertificazione” delle famiglie. Se accadesse quello che già avviene per la compilazione della DSU (Dichiarazione Sostitutiva Unica) per la richiesta dell’ISEE, sulla base dell’ultima indagine della Guardia di Finanza, circa il 60% delle autocertificazioni sarebbe falso. Un procedimento dunque sul quale si potrebbe quantomeno aprire un confronto. 

 

L’incidenza della povertà delle famiglie straniere

Volendo comunque utilizzare i dati Istat ufficiali, si scopre che l’incidenza della povertà si attesta su valori molto elevati in particolare tra le famiglie con componenti stranieri: sempre nel 2017 circa il 30% delle famiglie composte da soli stranieri è in condizione di povertà assoluta (percentuale 6 volte superiore a quella degli italiani), con punte che superano il 40% nel Mezzogiorno, e il 34,5% in condizioni di povertà relativa. 

Pur non disponendo del dato equivalente al 2007, possiamo ragionevolmente supporre che all’epoca l’incidenza delle famiglie di stranieri era significativamente più bassa rispetto a quella attuale: già considerando il solo numero assoluto, gli stranieri residenti all’1 gennaio 2008 erano 3,432 milioni contro i 5,144 del 2017, con una crescita di circa il 50%. E dunque l’incremento della povertà dei nuclei familiari composti da stranieri potrebbe spiegare almeno in parte l’aumento della povertà assoluta. La povertà relativa al netto degli stranieri è addirittura rimasta su valori leggermente inferiori all’8,316% delle famiglie registrato nel 2007.  

 

La ripartizione geografica

A livello territoriale, i dati relativi all’incidenza della povertà dipingono il Mezzogiorno come l’area più svantaggiata del Paese. In termini assoluti, l’incremento rispetto al 2016 è significativo, con percentuali che passano dall’8,5% al 10,3% delle famiglie (dal 9,8% all’11,4% degli individui). In particolare, rispetto all’anno precedente è cresciuta l’incidenza di povertà assoluta nei centri delle aree metropolitane (dal 5,8% del 2016 al 10,1%) e nei comuni più piccoli fino a 50mila abitanti (dal 7,8% al 9,8%) del Sud. Anche in termini relativi, il peggioramento del Mezzogiorno traina l’aumento della povertà generale: le famiglie residenti in condizioni di povertà relativa sono passate dal 19,7% del 2016 al 24,7% del 2017 e gli individui dal 23,5% al 28,2%.

 

La correlazione tra povertà ed evasione fiscale  

In realtà i dati appena evidenziati sulla distribuzione geografica della povertà, insieme a quelli relativi all’aumento della popolazione straniera, fanno riflettere su un ulteriore possibile ridimensionamento del fenomeno. Infatti, si rileva una sovrapposizione territoriale tra le regioni con un maggiore tasso di povertà e le regioni con il minor numero di contribuenti che pagano le tasse. In altre parole, si evidenzia una correlazione tra povertà, erogazione di prestazioni pensionistiche di tipo assistenziale e livelli di evasione o elusione dell’Irpef, nonché di economia “sommersa”.  Secondo gli ultimi dati elaborati da Banca d’Italia, Istat e FMI, la stima dell’evasione fiscale e del sommerso rispetto al PIL, incluse le attività criminali, è pari a circa il 20% per le regioni del Nord e il 43% per quelle del Sud.  Dai dati rielaborati dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali nell’Approfondimento 2018 “Dichiarazioni dei redditi ai fini Irpef 2016 per importi, tipologia di contribuenti e territori e analisi Irap” risulta che sul totale dell’Irpef versata (163,377 miliardi di euro) il Sud contribuisce con 33,8 miliardi che corrispondono solo al 20,69%, il Nord con 93,3 miliardi di euro, pari al 57,12% dell’Irpef totale e il Centro con 36,3 miliardi (22,19% del totale). La sola Lombardia, ad esempio, con circa 10 milioni di abitanti, versa 36,9 miliardi e quindi più dell’intero importo del Sud nonostante abbia meno della metà degli abitanti.  Guardando al versamento pro-capite, l’ammontare medio per ciascun contribuente è di 5.762 euro al Nord, 5.684 al Centro e 4.120 euro al Sud. Gli scostamenti più marcati si registrano  però passando dal dato pro-capite per contribuente a quello per abitante: in questo secondo caso, infatti, un cittadino del Nord versa 3.364 euro di Irpef l’anno contro i 3.004 del Centro e i soli 1.626 del Sud. Il confronto evidenzia che al Sud le persone a carico di ogni singolo contribuente sono molto più numerose rispetto alle altre due macro-aree, fenomeno che si potrebbe anche spiegare con una maggiore diffusione del lavoro irregolare.

Tuttavia, anziché approfondire le questioni sin qui poste, le risposte politiche finora fornite sono state esclusivamente monetarie, incidendo pesantemente sul bilancio pubblico.  Infatti, la spesa per assistenza a carico della fiscalità generale nel 2017 ha già raggiunto i 110,15 miliardi (+ 50% in soli 10 anni), cui si dovrebbero sommare i circa 10 miliardi spesi dagli enti locali per l’assistenza (così come stimato dalla Ragioneria Generale dello Stato) e gli oltre 12 miliardi di euro spesi dalle istituzioni locali e centrali per la funzione casa, per un totale di 130 miliardi e con un tasso annuo di aumento del 5,32% (giusto per avere un parametro di confronto, la spesa pensionistica “pura” vale 151 miliardi e registra un tasso di crescita annuo dello 0,88%). Dunque, le risorse per l’assistenza ci sono e hanno raggiunto un livello già oggi poco sostenibile; forse semplicemente non vengono sfruttate e distribuite nella maniera più efficiente. Innanzitutto, manca uno strumento indispensabile, ovvero un’anagrafe generale della assistenza (in gergo, Casellario Centrale dell’Assistenza), che - sul modello di quello delle pensioni- consenta una migliore allocazione delle risorse attraverso un sistema di controlli più efficace che evidenzi tutte le prestazioni in natura o in denaro che Enti locali, Regioni, Stato erogano a individui e famiglie; diversamente non sapremo mai quanto un cittadino riceve a livello complessivo in termini di sussidi assistenziali.

Siamo sicuri allora che le risposte date finora dalla politica solo in termini di nuove prestazioni assistenziali (social card, quattordicesima mensilità, REI, Reddito di Cittadinanza e altri sussidi) siano quelle giuste?Già da queste prime considerazioni, si può dedurre ad esempio come il Reddito di Cittadinanza fornisce una risposta standardizzata senza tuttavia tener conto di due importanti evidenze, ovvero la diversa incidenza della povertà a livello geografico e l’elevata percentuale di stranieri poveri (che però il Reddito di Cittadinanza in parte esclude). Sarebbe allora opportuno approfondire il fenomeno della povertà indagandone le cause e ragionando su interventi di sostegno mirati e specifici. 

Michaela Camilleri, Area Previdenza e Finanza Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

8/5/2019 

 
 

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