Produttività: un problema strutturale?
La produttività rappresenta un tema ampiamente dibattuto che contribuisce, almeno in parte, a spiegare anche la debole crescita del PIL italiano e lo scarso incremento dei salari. Un problema che sembra affondare le radici nelle caratteristiche strutturali del nostro tessuto produttivo, dominato da piccole imprese con maggiori difficoltà a investire nell'innovazione
Nel recente rapporto presentato da Mario Draghi su Il futuro della competitività europea, lex presidente della BCE ha messo in luce i gap in termini di innovazione e produttività dellUE rispetto a Stati Uniti e Cina, richiamando lurgenza di interventi coordinati da parte degli Stati membri per rilanciare la crescita del Vecchio Continente. Quello che ci troviamo di fronte, infatti, è uno scenario in cui per la prima volta nella storia recente lo sviluppo economico dovrà fare a meno della spinta della demografia, con leffetto combinato dellinvecchiamento della popolazione e della bassa natalità che provocherà una riduzione dellincidenza della popolazione in età lavorativa sul totale e, quindi, un minor impulso dellaumento delloccupazione alla crescita del PIL.
In tale contesto, sarà dunque fondamentale un salto di qualità in termini di produttività, il cui andamento riflette numerosi fattori, tra i quali il grado di innovazione tecnologica e organizzativa delle aziende, le condizioni più o meno favorevoli alliniziativa di impresa, il capitale umano e la capacità di creare opportunità di lavoro a seconda della facilità di incontro tra domanda e offerta, spesso ostacolata dalla presenza di skill mismatch. Allinterno dellequazione bisogna però tenere conto anche di come negli ultimi decenni le caratteristiche delloccupazione siano cambiate, accompagnando levoluzione delleconomia e della società. Il necessario incremento di produttività sembra infatti scontrarsi con il fenomeno secondo cui lo sviluppo economico comporta la crescita dei settori terziari a forte intensità di lavoro e a minore intensità di capitale, e spesso a minore produttività (valore aggiunto per occupato). In altre parole, il crescente peso dei settori terziari a minore produttività nelle economie avanzate comporta un aumento delloccupazione nei servizi che contribuisce ad abbassare la produttività a livello aggregato, riducendo il rapporto tra valore aggiunto e occupati (andrebbe tuttavia approfondito il tema di come misurare la produttività dei servizi, aspetto che risulta ancora scarsamente trattato anche a causa della carenza di dati comparabili).
Tralasciando per il momento la questione, per quanto riguarda lItalia, il Piano Strutturale di Bilancio 2025-2029 evidenzia che nel periodo tra il 2014 e il 2023 la produttività del lavoro (valore aggiunto per ora lavorata) delleconomia italiana, al netto del settore delle amministrazioni pubbliche, è cresciuta in media dello 0,3%, grazie soprattutto al contributo dellindustria manifatturiera e del commercio. Per fare un confronto a livello europeo, nel 2023 il valore aggiunto per ora lavorata è stato pari a 43,16 euro, rispetto ai 56,07 della Francia e ai 62,25 della Germania. Da rilevare, peraltro, che una persona italiana lavora in media più ore rispetto ai colleghi degli altri Paesi, senza tuttavia riuscire a raggiungere gli stessi valori di produttività per occupato delle altre grandi economie europee. Ad esempio, le ore lavorate per occupato nel 2023 in Italia nellindustria manifatturiera sono state 1.779 contro le 1.406 della Germania o le 1.565 della Francia, mentre nel commercio sono state 1.794 contro le 1.313 della Germania e le 1.555 della Francia.
Landamento debole della produttività aggregata riflette vari fattori, tra cui spiccano la struttura dimensionale e settoriale delle aziende italiane. LItalia si caratterizza infatti per unalta concentrazione di occupati nelle imprese di piccola dimensione, dove la produttività è tipicamente inferiore, il che costituisce un fattore frenante per la produttività aggregata. Nel dettaglio, in base ai dati Istat, nel 2022 il numero di imprese in Italia era pari a circa 4,58 milioni, di cui oltre il 99% con meno di 50 addetti che spiegano in parte il divario con i Paesi "competitor": i livelli di produttività risultano superiori a quelli delle principali economie europee per le imprese medie (50-249 addetti) pari però solo allo 0,55% del totale, in linea con quelle franco-tedesche per le piccole (10-49 addetti) e per le grandi (250 addetti e oltre), pari rispettivamente al 4,4% e allo 0,01% del totale, mentre si osserva una produttività significativamente inferiore nelle microimprese (fino a 9 addetti), pari al 95% del totale.
Lelevata frammentazione del nostro sistema produttivo, che affonda le radici in cause profonde tra cui la diffusione di un modello di governance familiare e di una struttura finanziaria prettamente basata sul credito bancario, sembra quindi essere al contempo causa e conseguenza della stagnazione della produttività, dato che questa cresce al crescere della dimensione. Infatti, la ridotta dimensione aziendale è un fattore che frena la capacità di innovazione a livello di sistema, tenuto conto che le imprese più piccole mediamente hanno più difficoltà a destinare risorse alle attività di ricerca e allefficientamento produttivo, complice anche il ricorso al debito bancario quale principale canale di finanziamento. Un canale poco adatto a sostenere investimenti rischiosi e con tempi di rientro più lunghi. La scarsa capacità di innovazione, e la conseguente debole performance in termini di produttività, contribuisce inoltre a spiegare il basso incremento dei salari. Le 4,58 milioni di imprese italiane occupano circa 18,22 milioni di addetti, di cui 11,2 milioni (il 61,5%) nel segmento delle micro e piccole (fino a 50 dipendenti) e circa 7 milioni (il 38,5%) nel segmento delle medie e delle grandi (oltre 50 dipendenti).
Da tutto ciò deriva un sistema dualistico con una prevalenza di imprese meno dinamiche, caratterizzate da una propensione medio-bassa a innovare, investire in tecnologia e formazione del personale e organizzazione aziendale, le quali registrano un peso economico limitato in termini di valore aggiunto (inferiore al 25%) ma oltre la metà degli addetti. Al contrario, le imprese più dinamiche, seppur meno numerose, risultano economicamente più rilevanti, generando oltre la metà del valore aggiunto ma impiegando meno del 40% delloccupazione totale. Anche per questo, negli ultimi dieci anni le retribuzioni lorde per dipendente in termini nominali hanno mostrato una crescita molto contenuta: nel complesso, tra il 2013 e il 2023, lincremento è stato di circa il 16%, poco più della metà di quello registrato nella media UE a 27 Paesi (+30,8%). Il divario delle retribuzioni in termini reali risulta ancora più ampio rispetto alle altre grandi economie e, nel 2023, lItalia è risultata lunico Paese con un livello medio inferiore al 2013. Lo scorso anno, il potere di acquisto delle retribuzioni lorde è cresciuto nella media UE27 del 3%, mentre in Italia è diminuito del 4,5%; se si guarda alla dinamica dellultimo biennio, caratterizzato da alta inflazione, lItalia presenta la dinamica peggiore in termini reali (-6,4% rispetto al 2021).
Da quanto sopra esposto, emerge la necessità di intervenire su alcune caratteristiche strutturali del mercato del lavoro e del sistema produttivo italiano, ossia il mismatch delle competenze e la dimensione aziendale. Per quanto riguarda il primo punto, è evidente che il disallineamento tra domanda e offerta incida negativamente sulla produttività, limitando l'utilizzo efficiente del capitale umano, e che sia da ricondursi a diverse ragioni tra le quali il rapporto tra sistema di istruzione-formazione e mercato del lavoro. Ad esempio, negli altri Paesi sono molto più popolari e diffuse le lauree in materie STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics) che rappresentano la maggior parte dei lavori richiesti dal mercato e che offrono retribuzioni mediamente più elevate.
Il tutto senza dimenticare la dinamica demografica: secondo lAgeing Report 2024 tra il 2022 e il 2070 la popolazione italiana diminuirà del 9,7%, con una forza lavoro (persone in età 20-74 anni) in calo dell8,3%. In tale scenario, il tasso di partecipazione della fascia 20-74 è atteso aumentare del 7,1%, dal 60,3% del 2022 al 67,4% del 2070, grazie soprattutto al maggior contributo della popolazione più anziana. Nel dettaglio, il tasso di partecipazione è previsto passare dal 57,9% del 2022 al 76,3% del 2070 per la fascia 55-64 anni e dal 9,4% al 33% per quella 65-74 anni. Anche alla luce dellaumento delletà media lavorativa, sarà quindi di cruciale importanza adeguare la dotazione di capitale umano alle nuove esigenze legate alle transizioni digitale ed ecologica in atto, prevedendo tra laltro percorsi di formazione continua.
In merito alla struttura produttiva, una delle leve per favorire la crescita dimensionale delle imprese passa attraverso un più facile accesso e una maggiore diversificazione delle fonti di finanziamento. A tal fine, il governo sta studiando una riforma del sistema delle regole che presidiano il funzionamento e la supervisione dei mercati dei capitali, allo scopo di migliorarne lefficienza e la competitività a livello internazionale e facilitare in tal modo il finanziamento delle PMI, a cui si unisce il progetto europeo della Capital Markets Union. Iniziative essenziali dato che, di fatto, il nostro Paese appare privo di una politica industriale in cui linnovazione e la competitività siano poste al centro dellattenzione e promosse con logica di sistema, anche a causa di un mercato finanziario sottosviluppato che vede una scarsa partecipazione del pubblico (non inteso come Stato, ma come platea di investitori) nel capitale aziendale.
La modernizzazione della finanza dimpresa costituisce quindi un tassello fondamentale attraverso cui favorire la crescita dimensionale delle imprese e la produttività, promuovendo linnovazione per tenere il passo con la concorrenza internazionale.
Bruno Bernasconi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
5/11/2024