Sul nuovo filone della formazione per il lavoro

Focalizzare le attività formative per il lavoro è senza ombra di dubbio uno dei filoni su cui l'Italia deve lavorare per favorire un maggiore avvicinamento tra scuola, dinamiche del mercato ed esigenze prospettiche degli studenti: come si collocano, in questo scenario, le recenti novità sull'istruzione tecnico-professionale?

Tiziana Pedrizzi

L’iniziativa del Ministero Valditara di costituire un filone formativo dedicato alla formazione per il lavoro, di 4 anni in cui confluiscano istituti tecnici, istituti  professionali e centri regionali, più 2 di formazione terziaria partendo dagli attuali ITS deriva da due principali necessità. Da un lato, rifocalizzare maggiormente le attività formative sul lavoro, dando vita anche a un percorso più breve di 4 anni, dall’altro collegarvi una formazione terziaria anch’essa esplicitamente orientata al lavoro, superando i limiti degli attuali  ITS e la latitanza delle lauree professionalizzanti. A esse sembra collegarsi anche il potenziamento delle attività di orientamento attraverso una figura dedicata.

Tali necessità corrispondono a 3 dei 6 obiettivi indicati dal PNRR per la scuola: riforma del sistema di orientamento degli studenti per le scuole secondarie con non meno di 30 ore a ciò dedicate per gli studenti di quarta e quinta classe, riorganizzazione delle scuole tecniche e professionali per allinearne i curricula alle capacità richieste dal sistema produttivo italiano, rinforzo del sistema di formazione terziario professionale, semplificandone la governance e aumentando i percorsi di terziario orientati al lavoro. 

La quota di giovani adulti (25/34 anni) senza un’istruzione secondaria superiore è scesa in Italia dal 26% al 22% ma al Sud la percentuale sale al 25%. Rimane comunque alta rispetto a quelle degli altri Paesi analizzati nel recente Rapporto OCSE Education at a Glance. Inoltre, la quota di iscritti a percorsi professionalizzanti (ITS, IPS e CFP regionali) sta lentamente ma inesorabilmente scendendo negli ultimi anni, superata in percentuale dalle forme più diverse di licealità. Diversamente da molti altri Paesi del mondo occidentale esiste in ogni caso una base da cui partire e da cercare di preservare poiché, dei diplomati italiani, oltre un terzo consegue una qualifica tecnico-professionale e, pertanto, si tratta di un settore chiave nel nostro sistema di istruzione, soprattutto nel Nord del Paese. Tuttavia, è evidente che la cosiddetta dispersione esplicita (bocciature e abbandoni) riguarda non tanto marginali errori di orientamento: una volta, era classico il caso di chi voleva dedicarsi ad attività di tipo artistico e veniva spedito dalla famiglia a ragioneria. Piuttosto concerne settori sociali che, obbligati in qualche modo al proseguimento dall’obbligo se non hanno già raggiunto l’età della liberatoria perché bocciati o pluribocciati, scelgono le vie formative che ritengono più semplici e concrete e, invece, si trovano davanti a percorsi molto impegnativi di formazione generalista.

Senza ricostruire troppo minuziosamente quanto avvenuto dagli anni Settanta in avanti, si può sinteticamente dire che la spinta verso l’equità ha portato a allungare l’obbligo per tutti ma anche a ampliare nei piani di studio la parte di formazione generalista (italiano, matematica e scienze, cultura umanistica). Contrariamente a quanto i benintenzionati progressisti si immaginavano, è proprio questo che fa da ostacolo alla frequenza proficua scolastica e che porta all’abbandono. Mancano, non a caso, ricerche significative in questo senso ma luce su ciò la getta il fatto che, mentre i professionali statali sono in diminuzione, i centri regionali sono, soprattutto in alcune Regioni, in aumento. C’è chi teme una unificazione al ribasso, ma dovrebbe essere più noto il fatto che, sia in PISA che in Invalsi, il livello delle prove delle competenze di base dei regionali è pari o superiore a quello degli statali. Ma uno degli ostacoli che il 4 + 2 incontrerà verrà dalla ridotta quota di chi non vuole vedere come stanno davvero le cose e ha già cominciato a gridare alla selezione e alla segregazione sociale, attraverso la preparazione allo sfruttamento capitalistico. Opposizione che si sovrapporrà a quella dei sindacati, soprattutto della CGIL, che non è stata sedata dalla precisazione del Ministro “a parità di organico”. Poiché la consistenza dell’organico è in questa visione direttamente proporzionale alla civiltà e all'equità del Paese. Ed è vero che in prospettiva la riduzione di un anno e l’ampliamento ovvio delle attività operative dentro e fuori la scuola porteranno a dei cambiamenti.

Altri problemi? Gli istituti tecnici di fatto svolgono oggi una funzione duplice: non solo inserimento immediato al lavoro ma anche  prosecuzione all’università, opzione che è diventata prevalente in relazione al crescere del benessere delle famiglie e perciò alla possibilità di mantenere i figli per un numero maggiore di anni, fino ad arrivare alla moltiplicazione dei NEET, vale a dire di chi non studia né lavora (ufficialmente…). Il loro inserimento in questo filone potrebbe diventare problematico, se non si riuscisse a trovare una soluzione al proseguimento all’università. Il tentativo di abbassare la durata della secondaria a 4 anni per tutti, anche per i licei, è stato intrapreso da anni attraverso una “sperimentazione” di cui però, come è avvenuto di tutte le sperimentazioni scolastiche italiane, non si è fatto un bilancio scientifico per assumere decisioni.

Dall’altra parte, anche l’istruzione e formazione professionale regionale è tutt’altro che rose e fiori. Cinque Regioni non hanno il quarto anno, che pure era previsto dalla legge istitutiva. Si è poi visto che metterle insieme dal basso, con la Conferenza Stato-Regioni ad esempio, non ha portato a molto. Perciò ci vorrà una mano ferma centralizzata – spiace doverlo dire - per garantire al progetto un minimo di fattibilità. Passando al livello terziario, Education at a Glance vede come significativo  problema della istruzione tecnico-professionale italiana la  mancanza  di fatto di un  suo completamento a quel livello, a differenza degli altri Paesi che proprio per questa ragione ci superano nella percentuale di giovani “laureati”. Gli ITS sono stati un piccolo successo e, infatti, proseguono da due decenni e sono stati rifinanziati. Tuttavia, sono diffusi in modo diseguale sul territorio nazionale, sono stati dotati di una struttura ottimale ma molto complessa e, in definitiva, hanno raggiunto una numerosità non abbastanza significativa e una notorietà bassa.

Tuttavia, poiché le università non danno alcun affidamento e hanno di fatto usato il fantasma delle lauree professionali mai attivate solo per non perdere mercato non vi è altra strada che proseguire sulla via degli ITS, evitando anche di affidare questo segmento di formazione esclusivamente alle scuole che, lasciate da sole, non sarebbero in grado dai garantire un rapporto significativo con il mondo del lavoro e potrebbero cadere nella tentazione di utilizzare questo segmento per mantenere gli organici propri. Portare però alla convergenza istituzionale tutte le esperienze ITS fin qui maturate con un'accettabile omogeneità sul territorio nazionale non sarà impresa facile, così come appunto nel caso dell'istruzione e formazione professionale regionale. 

Nonostante le prevedibili difficoltà tuttavia il progetto sembra sostanziamente positivo se non addirittura necessario. Il rinvio di un anno al 2025-26 era inevitabile visto che le iscrizioni alle scuole superiori si chiudono a gennaio. Ci si potrebbe domandare se i tempi così prolungati della sua gestazione fossero inevitabili, ma è noto che per l’amministrazione italiana (che dovrebbe presidiare questi aspetti più dei politici) la fattibilità concreta ed efficace è l’ultimo dei problemi. Tuttavia, il rischio è che i tempi diluiti facciano risvegliare gli oppositori che finora non credevano probabilmente a una reale volontà e/o capacità di realizzare il progetto e che inizi quindi il solito il lento ma potente lavorio di condizionamento e limitazione. Non sarebbe la prima volta che succede poiché ormai cambiare qualsiasi cosa nella scuola italiana - non diversamente da altre parti della stessa  società - sembra  richiedere uno sforzo enorme. 

Tiziana Pedrizzi per la Fondazione Anna Kuliscioff

5/12/2023

 
 

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