FMI, i (bassi) tassi d'interesse pre-COVID sono destinati a tornare

Nell'ambito di una rapida campagna restrittiva per combattere l'inflazione, FED e BCE hanno alzato i tassi di interesse sui massimi dal 2007 e avvisato che rimarranno su livelli elevati a lungo: per il Fondo Monetario si tratta però solo di rialzi temporanei, che precedono un'inversione di rotta verso la situazione del 2019

Bruno Bernasconi

Il ritorno dell’inflazione su livelli elevati che non si vedevano da decenni ha spinto le Banche Centrali di quasi tutte le principali economie mondiali a iniziare nel 2022 un aggressivo ciclo di strette monetarie per riportare i prezzi verso il target del 2%. I tassi di interesse reali hanno quindi registrato un rapido incremento nell’ultimo anno, ma se si tratti di un rialzo solo temporaneo o se rifletta fattori strutturali è una questione importante per i policy maker. 

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i tassi molto bassi che c’erano prima di COVID-19 sono infatti destinati a tornare non appena l’inflazione sarà domata: l’impennata dei prezzi rappresenterebbe solo un intoppo nella tendenza generale a tassi di interesse bassi piuttosto che un cambiamento permanente nel panorama finanziario globale. Una tesi supportata dall’ipotesi secondo cui il tasso di interesse neutrale, spartiacque tra una politica monetaria espansiva e una restrittiva, si sia progressivamente abbassato nelle economie avanzate negli ultimi decenni. 

Il punto di partenza dell’analisi del FMI riguarda quindi l’inflazione, il cui ritorno verso il livello target delle Banche Centrali è ritenuto in molti casi improbabile prima del 2025. Dopo che le prime avvisaglie di un consistente aumento dei prezzi in seguito alle riaperture post-lockdown pandemici furono erroneamente definite delle autorità come un fenomeno transitorio, l’inflazione si è di fatto dimostrata molto più persistente del previsto, alimentata anche dall’impennata dei costi delle materie prime innescata dal conflitto in Ucraina. Anche i recenti segnali di raffreddamento sembrano riflettere in larga misura una frenata dei prezzi energetici e alimentari, al netto dei quali la componente core rimane ancora ben al di sopra del doppio del target del 2%. Ciò potrebbe rendere necessario un ulteriore inasprimento monetario e il mantenimento di tassi  elevati per un periodo di tempo prolungato, allontanando l’orizzonte temporale di un allentamento del percorso restrittivo intrapreso dalle Banche Centrali. 

 

I rischi per l’economia

L’altro lato della medaglia della lotta all’inflazione è rappresentato dagli effetti collaterali del rapido aumento del costo del denaro sulla stabilità del settore finanziario (come evidenziato dalle turbolenze innescate dal fallimento di Silicon Valley Bank negli UISA prima e dal salvataggio di Credit Suisse in Europa poi), abituato ad anni di tassi di interesse straordinariamente bassi. In altre parole, la battaglia per garantire la stabilità dei prezzi potrebbe mettere a rischio la stabilità finanziaria e di conseguenza indebolire la crescita economica. Il FMI ha infatti fornito le previsioni a medio termine (a 5 anni) sulla crescita dell’economia globale più basse da oltre 30 anni, all’interno di una traiettoria in costante discesa nell’ultimo decennio dal 4,6% del 2011 al 3% del 2023. 

Parte di questo trend al ribasso riflette in parte il fisiologico rallentamento dei tassi di crescita di alcuni Paesi come Cina e Corea del Sud, ma dall’altro lato potrebbe celare fattori più preoccupanti, come l’impatto radicale della pandemia, il rallentamento delle riforme strutturali, nonché la crescente minaccia di una frammentazione geoeconomica che porta tensioni commerciali, una diminuzione degli investimenti diretti esteri, un rallentamento dell’innovazione e l’adozione di tecnologie in “blocchi” frammentati. Una spinta alla deglobalizzazione che, secondo il FMI, potrebbe avere un costo elevato, poiché “è improbabile che un mondo frammentato riesca a raggiungere un progresso per tutti o a permetterci di affrontare sfide globali come il cambiamento climatico o la preparazione alle pandemie”. Una decisa stretta nelle condizioni finanziarie globali, inoltre, potrebbe avere un forte impatto sulle condizioni del credito e delle finanze pubbliche, soprattutto nei mercati emergenti e nelle economie in via si sviluppo. Per il Fondo Monetario stiamo quindi entrando in una fase delicata in cui la crescita economica rimane al di sotto degli standard storici e i rischi finanziari sono aumentati, ma dove l’inflazione non ha ancora intrapreso una svolta decisiva verso una traiettoria discendente. 

 

Il declino del tasso di interesse neutrale

L’istituto di Washington respinge però la tesi secondo cui lo choc del 2022 abbia trasformato l'inflazione, costringendola su livelli più elevati in modo strutturale e portando dunque a condizioni finanziarie più stringenti nel lungo periodo. Nel report sul World Economic Outlook di aprile, il FMI sottolinea come, dalla metà degli anni Ottanta, i tassi di interesse reali su tutte le scadenze e nella maggior parte delle economie avanzate abbiano intrapreso un costante percorso di discesa, riflettendo probabilmente l’abbassamento del tasso neutrale, ossia quel livello che non stimola né rallenta la crescita economica. Il tasso neutrale rappresenta un riferimento chiave sia per la politica monetaria sia per quella fiscale, dato che aiuta a determinare il costo di finanziarsi sui mercati e la sostenibilità dei debiti pubblici. 

Ma quali sono i fattori che storicamente hanno influenzato l’andamento del tasso neutrale? Oltre alle forze globali, il cui effetto netto è ritenuto relativamente modesto, lo studio condotto dal FMI ha individuato nella crescita della produttività e nei trend demografici, legati all’invecchiamento della popolazione, i principali driver che hanno portato a una discesa dei tassi neutrali. Tali fenomeni non sembrano essere destinati a subire sostanziali modifiche in futuro, spingendo quindi i tassi neutrali nelle economie avanzate a rimanere bassi. Parallelamente, l’adozione di tecnologie sempre più avanzate nelle economie emergenti dovrebbe far convergere la crescita della produttività verso i livelli dei Paesi più sviluppati che, insieme al progressivo invecchiamento della popolazione, proietta anche i tassi dei mercati emergenti su una traiettoria discendente nel lungo periodo. 

Quando l’inflazione sarà riportata sotto controllo, è quindi probabile che le Banche Centrali delle economie avanzate allenteranno la politica monetaria e riporteranno i tassi di interesse reali ai livelli pre-pandemia, conclude il FMI. Quanto vicino a tali livelli dipenderà dal concretizzarsi di scenari alternativi che comportano un debito e disavanzi pubblici costantemente più elevati, per effetto delle difficoltà nel ritirare gli stimoli fiscali messi in campo per contrastare gli effetti economici di COVID e complice la necessità di finanziare la transizione green, o una maggiore frammentazione finanziaria in scia all’intensificarsi delle tensioni geopolitiche e delle spinte alla deglobalizzazione.

Bruno Bernasconi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

24/5/2023 

 
 
 

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