Fondi pensione, un confronto sulle scelte sostenibili di investimento

Tra i player istituzionali italiani, fondi pensione negoziali e preesistenti sono fortemente accomunati dall'obiettivo di lungo periodo di offrire ai sottoscrittori uno strumento di risparmio con finalità previdenziali: quali invece i punti di contatto, o le eventuali differenze, nelle loro politiche di investimento sostenibile?

Bruno Bernasconi

La quinta edizione dell’indagine sulle strategie di sostenibilità e integrazione dei criteri ESG nei portafogli dei principali investitori istituzionali italiani curata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali ha esaminato le risposte di 19 fondi pensione preesistenti e 28 fondi pensione negoziali (rispettivamente +1 e +2 rispetto all’indagine condotta nel 2022) su un campione totale di 123 enti che hanno collaborato e risposto al questionario (106 nel 2022). 

Per quanto riguarda la prima categoria, gli enti partecipanti all’indagine raccolgono un attivo netto totale destinato alle prestazioni di 49 miliardi, pari al 72,45% dell'ANDP totale  dei fondi preesistenti, rispetto ai 36,8 miliardi (pari al 56% dell’ANDP) analizzati nel 2022. L’ammontare complessivo dell’attivo netto destinato alle prestazioni dei negoziali intervistati, invece, è di circa 63,5 miliardi, vale a dire circa il 97,2% dell’ANDP totale, e fornisce quindi un quadro pressoché completo dell’insieme dei fondi pensione negoziali attualmente presenti nel Paese, composto da 33 soggetti.

 

L’asset allocation dei fondi pensione a confronto

Analizzando gli asset in cui i diversi enti investono, oggi sia i fondi pensione negoziali sia i preesistenti indicano i mandati di gestione come lo strumento più utilizzato con l’89% delle preferenze, in linea con le disposizioni di legge previste dal D.Lgs. 252/2005 art. 6 e dal DM 166 in materia di gestione e limiti di investimento. Una percentuale indicata però in diminuzione quando si indagano le intenzioni sulle scelte di investimento future, in modo oltretutto più marcato per i negoziali (25%) rispetto ai preesistenti (55%), complice probabilmente la volontà di ampliare, sempre nei limiti previsti dalla normativa, la quota di gestione diretta. 

Interessante notare poi come, in generale, azioni, ETF e fondi comuni tradizionali vedano ridursi il proprio peso per quanto riguarda il futuro, forse anche come correttivo dovuto alle difficoltà registrate dai mercati finanziari nel 2022. In particolare, le azioni, oggi al 32% per i preesistenti e al 39% per i negoziali, scenderanno rispettivamente al 10% e all’11: una tendenza che potrebbe essere legata anche al downgrade sull’equity effettuata da diverse case di investimento, alla luce dei timori recessivi innescati dalle strette monetarie effettuate dalle Banche Centrali per contrastare l’elevata inflazione. Analogamente, gli ETF passeranno in chiave prospettica dal 21% al 10% per i fondi pensione preesistenti e dal 18% allo 0% per i negoziali, mentre i fondi comuni tradizionali addirittura dal 47% al 10% per i preesistenti e dal 32% all’11% per i fondi chiusi. 

Discorso a parte meritano le obbligazioni, che hanno visto aumentare il proprio appeal nell’ultimo anno in scia al ritorno di rendimenti interessanti dopo anni di tassi di interesse sui minimi storici; ciononostante, anche questo strumento registra una flessione nelle scelte di investimento future, con una percentuale in discesa dal  42% al 26% per i preesistenti e dal 46% al 14% per i negoziali. Una tendenza che potrebbe essere spiegata dalla convinzione che il picco dei tassi di interesse sia ormai vicino, con la prospettiva di una discesa dei rendimenti dai recenti massimi soprattutto nella parte a breve della curva dei tassi. Grande attenzione registrano infine gli strumenti alternativi di private market, che sembrano invece raccogliere i maggiori interessi per entrambe le tipologie di enti considerati. Nel dettaglio, il 68% dei fondi pensione preesistenti dichiara di voler aumentare la propria esposizione nei FIA (attualmente sono al 58%); una percentuale che sale addirittura al 71% considerando  i negoziali (54% il valore attuale).

 

Le politiche di investimento SRI di fondi negoziali e preesistenti 

Per quanto riguarda l’ambito sostenibile degli investimenti, l’indagine effettuata dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali evidenzia la crescita dei fondi pensione preesistenti che adottano una politica di investimento SRI: si tratta del 63% dei rispondenti, contro il 56% del 2022 (erano il 41% nel 2019, primo anno di realizzazione della survey). Da sottolineare, inoltre, come tutti i rispondenti che attualmente ancora non adottano una politica di investimento sostenibile ne hanno perlomeno discusso in CdA, con ben il 72% che dichiara di volerla implementare in futuro. Con l’incremento del numero di fondi negoziali partecipanti all’indagine, si registra invece una riduzione di lieve entità nell’incidenza percentuale di soggetti che formalmente adottano una politica SRI; incidenza che scende dal 58% al 50%. Tuttavia, come già emerso per le altre tipologie di investitori istituzionali, la mancata formalizzazione di una politica di investimento SRI non significa che l’ente non scelga comunque di investire in strumenti sostenibili: dei 14 soggetti che attualmente non hanno politiche attive il 79% dichiara che le implementerà nel prossimo futuro, mentre solamente 3 rispondenti affermano di non essere intenzionati a farlo. 

Numeri che, se confrontati con la totalità del campione analizzato dalla survey, confermano la tendenza generale degli investitori istituzionali a orientarsi sempre di più verso una politica virtuosa degli investimenti. Se, da una parte, nel 2023 si è abbassata la percentuale aggregata di enti che adottano una politica di investimento sostenibile (scesa dal 56% del 2022 al 52%), dall’altra aumenta il dato in valore assoluto (erano 59 enti su 106 lo scorso anno, mentre sono 64 su 123 nell'ultima edizione). Ancora più significativo è il fatto che, su 59 enti che hanno dichiarato di non adottare una politica di investimento sostenibile, ben 47 (ovvero l’80%) motivano il loro no spiegando che il tema è stato discusso e verrà implementato in futuro. Tanto più che molti investitori già acquistano prodotti ESG pur non prevedendo “ufficialmente” una vera e propria politica di investimento SRI.

 

Le strategie adottate dai protagonisti della previdenza complementare italiana

Passando all’analisi delle strategie adottate in ambito ESG, si rileva che nel 2023 le esclusioni risultano al primo posto e in forte ascesa sia per i preesistenti, con l’81% delle scelte (44% nel 2022), sia per i fondi negoziali, con il 54% (erano il 42% nel 2022). Seguono al secondo posto le convenzioni internazionali, al 38% per i preesistenti e al 36% per i negoziali, per questi ultimi a pari merito con la strategia best in class che, invece, occupa la terza posizione - con il 31% delle preferenze -  per i preesistenti. Stessa percentuale, vale a dire il 25%, per quanto riguarda l’engagement, mentre le maggiori differenze tra le due diverse tipologie di investitori previdenziali si riscontrano sul versante di investimenti tematici e impact investing, che confermano lo scarso appeal tra i fondi chiusi: la prima categoria viene indicata da 1 solo fondo pensione negoziale (il 4% contro il 25% dei preesistenti), la seconda da nessun ente (contro il 9% dei preesistenti, a propria volta in calo rispetto al 19% del 2022). Dati che, peraltro, differenziano i negoziali dall’intero panorama degli investitori istituzionali, tra i quali gli investimenti tematici sono posizionati al secondo posto in termini di preferenze (34%), mentre l’impact investing raccoglie circa il 30% delle risposte. 

Ma la maggiore difformità riguarda non tanto le strategie quanto piuttosto la quota di patrimonio cui vengono applicati i fattori ESG, che in questo caso vede i fondi pensione negoziali più vicini alle risposte dell’intero campione (che indica con una percentuale del 33% la scelta di allocare il totale del patrimonio tramite una politica SRI). Per la maggior parte dei negoziali (43%), infatti, i criteri vengono applicati sull’intero patrimonio, con un incremento di oltre 8 punti percentuali rispetto allo scorso anno (35%), mentre cala ancora tra i preesistenti il valore percentuale di chi applica i fattori ESG all’intero patrimonio scendendo dal 17% del 2022 al 10%. Tra le singole asset class oggetto dei criteri ESG a farla da padrone sono sempre azioni e obbligazioni, con il 53% dei fondi preesistenti che li applica a entrambi, rispetto al 32% e al 14% registrato dai negoziali (il totale del campione indica con il 38% l’azionario e con il 33% l’obbligazionario). Dati che sembrano evidenziare come, sebbene si stiano sviluppando sempre più strumenti e competenze anche per altre asset class grazie a regole sempre più chiare e processi sempre meno eludibili nelle proposte di investimento, equity e bond rimangano la via più utilizzata e semplice cui applicare i principi di sostenibilità. Una dinamica in parte legata alla scelta delle realtà quotate di potenziare la comunicazione e la rendicontazione sul fronte ESG, in linea con normative e trend di mercato sempre più stringenti, oltre alla crescente diffusione di prodotti sustainability-linked.

 

Quali benefici dagli investimenti SRI per fondi negoziali e preesistenti?

L’analisi ex post sull’utilizzo di strategie di investimento sostenibile evidenzia come una migliore diversificazione del rischio sia considerato ancora come il maggiore beneficio, opzione scelta dal 50% dei preesistenti e dal 46% dei negoziali (al di sotto rispetto all’86% dell’intero campione), seguito a stretto giro dalla migliore reputazione dell’ente (50% per i preesistenti e 32%  per i negoziali), in linea con quanto emerge dai risultati aggregati del questionario. Cala drasticamente, invece, il “beneficio” legato all’aumento dei rendimenti, al 7% per entrambe le categorie di fondi e valutato solo dal 12% dei soggetti totali, in costante riduzione da ormai 3 anni e in contrasto con alcune recenti analisi che valutano maggiormente redditivi gli investimenti sostenibili rispetto alle altre tipologie

Anche in questo caso, però, la motivazione dietro questa discesa potrebbe essere ricondotta alle performance deludenti registrate dai mercati nel 2022, con l’elevata volatilità che ha colpito i diversi strumenti di investimento con ben poche eccezioni. Dall’altra parte, una possibile spiegazione potrebbe risiedere anche nell’auspicabile “normalizzazione” dei processi in ambito sostenibile, che se prima venivano considerati come best practice ora vengono sempre più visti come requisiti necessari nelle scelte di investimento. 

Ancora contenuta, infine, sia per i fondi pensione negoziali sia per i preesistenti l’assegnazione di specifici mandati di gestione con obiettivi di sostenibilità, rispettivamente fermi a quota 10% e 18%, con addirittura il 90% dei rispondenti (in lieve riduzione rispetto al 92% del 2022) tra i negoziali che opta per il no, in linea ai risultati aggregati (il no viene scelto dall’84% degli enti). Questo non significa, però, che all’interno della delega conferita non siano comunque presenti investimenti sostenibili.

 

L'impatto della normativa UE sull'attività (sostenibile) dei fondi pensione

Per il secondo anno consecutivo, nell’indagine condotta dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali sono state inserite domande relative al regolamento 2019/2088 SFDR, anche alla luce della nuova normativa UE 2022/1288: in particolare, si è voluto valutare il livello di impatto che il regolamento avrà sulle politiche di investimento dei player istituzionali, se modificherà le modalità di attuazione della politica di investimento e, infine, se fossero già presenti in portafoglio fondi classificabili Art. 8 e Art. 9. 

Relativamente all’impatto della normativa sulle politiche di investimento, il 47% (in linea con il 50% del 2022) dei rispondenti tra i fondi preesistenti dichiara che l’effetto sarà limitato, mentre solo il 24% degli enti lo indica come elevato (era il 17% nel 2022); il 29% non prevede invece alcun effetto dall’entrata in vigore della nuova normativa (era il 33% nel 2022). Resta invariata rispetto allo scorso anno la percentuale di fondi negoziali che sostiene l'impatto limitato (62%), mentre cresce l’incidenza percentuale di chi lo ritiene nullo, passando dal 12% al 19%.

Scende invece dal 61% al 35% la percentuale dei preesistenti che non hanno in portafoglio fondi che rispondano agli Articoli 8 e 9, mentre il 24% (era il 22% nel 2022) dichiara di avere in portafoglio fondi sia Art. 8 che Art. 9. Nessun fondo pensione preesistente dichiara invece di detenere un fondo Art.8 o Art.9 di diritto italiano. Tra i negoziali, rispetto al 2022 si riduce sia la percentuale di chi non detiene fondi di questo genere, che passa dal 62% al 46%, sia quella di chi possiede fondi sia Art.8 che Art.9 (in discesa dal 27% al 18%): entrambe le riduzioni vanno a favore dell’incidenza percentuale di chi detiene fondi Art.8, più che triplicata nel corso di un anno, crescendo dall’11% al 36%. La dinamica in atto sta consentendo ai fondi negoziali di riallinearsi con i valori aggregati della survey, con una progressiva riduzione dell’incidenza di chi non detiene queste tipologie di prodotti, mentre rimane ancora distante il dato relativo al possesso di fondi sia art.8 sia Art.9, pari al 41% per l’intero universo. 

  Bruno Bernasconi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

2/5/2023

 
 

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