Il futuro della sostenibilità passa dalla trasparenza

Il futuro della finanza sostenibile dipende inevitabilmente da come regolatore e operatori sapranno affrontare la sfida della trasparenza: se fino a poco tempo fa i riflettori erano puntati sulla crescita dei volumi, ora l'attenzione si sta spostando sui rischi che possono derivare dal rapido sviluppo, uno su tutti il greenwashing. Quale la rotta tracciata dall'Europa e quali le iniziative del mercato per combattere questo pericolo?

Michaela Camilleri

30,7mila miliardi di dollari a livello globale (+34% rispetto al 2016), di cui 14 solo in Europa (pari al 46% del totale). È quanto valgono gli investimenti sostenibili secondo gli ultimi dati forniti dalla Global Sustainable Investment Alliance (Gsia). Ma se fino a poco tempo fa sotto analisi c’era proprio la crescita del settore in termini di asset under management, ora l’attenzione si sta via via spostando sui rischi che possono derivare da un così rapido sviluppo.

Il principale pericolo è il cosiddetto greenwashing, inteso in questo caso come il rischio che talune società di gestione si auto-dichiarino sostenibili attribuendo ai propri prodotti etichette “verdi” che, in realtà, non meritano. Il concetto del greenwashing è stato elaborato per la prima volta nel 1986 dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld in risposta alle pratiche delle catene alberghiere che facevano leva sull'impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare i clienti a ridurre l’utilizzo di asciugamani, quando in realtà l’invito muoveva da motivazioni di carattere prevalentemente economico; negli anni il significato dell’espressione si è esteso largamente così da comprendere tutte le strategie di comunicazione aziendale finalizzate a offrire un’immagine positiva agli occhi del pubblico, incluse quelle delle società di gestione e dei relativi investimenti ESG.

Per contrastare questo fenomeno, a livello comunitario si sta lavorando molto sulla trasparenza e sulla misurabilità dei dati dichiarati. L’Unione Europea sta infatti svolgendo un ruolo guida nell’agenda mondiale delle politiche per la sostenibilità: a marzo 2018 è stato lanciato il Piano d’Azione per finanziare la crescita sostenibile che individua dieci obiettivi specifici, tre dei quali (tassonomia, disclosure benchmark) sono stati considerati dalla Commissione Europea prioritari nell’ottica, appunto, di una maggior chiarezza e trasparenza del sistema. A oggi, sono stati approvati due regolamenti, quello relativo al benchmark low-carbon positive carbon impact che dovrà misurare “l’impronta ambientale” degli investimenti e quello legato alla disclosure, intesa come la rendicontazione delle informazioni sui temi di sostenibilità ambientale, sociale e di governo; per quanto riguarda invece la classificazione delle attività eco-compatibili (la tassonomia), la proposta è stata approvata dal Consiglio ma la sua applicazione è rinviata al 2022, a conferma di quanto l’attività definitoria sia complessa e ambiziosa. Nonostante la proposta della Commissione, così come più in generale l’intero Action Plan, si concentri al momento sui temi ambientali e climatici, è emersa la consapevolezza dell’importanza al tema sociale nel processo di transizione dei flussi di capitale verso attività sostenibili.

 

In attesa di questi provvedimenti, di quali strumenti dispone l’investitore?

Un primo strumento utile a prevenire il rischio di incappare nel “finto-sostenibile” potrebbe essere l’esistenza di una certificazione. Un’esperienza significativa a livello europeo è rappresentata dallo European SRI Transparency Code, il codice di trasparenza per i fondi retail sostenibili di Eurosif. Inoltre, l’Unione Europea sta studiando la possibilità di estendere gli ecolabel, ossia le certificazioni di sostenibilità ambientale dei beni di consumo, ai prodotti finanziari e assicurativi retail (per esempio, i fondi d’investimento UCITS risulterebbero inclusi perché le loro quote sono vendibili anche a investitori retail).

A livello nazionale, poi, sono state avviate iniziative da parte di diverse organizzazioni (centri finanziari, associazioni di settore, organizzazioni specializzate in certificazioni di strumenti finanziari, etc.) che si basano su requisiti minimi in linea con gli standard riconosciuti a livello internazionale e che prevedono una verifica da parte di revisore indipendente. Come ben descritto nel manuale “L’Unione Europea e la finanza sostenibile: impatti e prospettive per il mercato italiano”, curato dal Forum per la Finanza Sostenibile e presentato lo scorso 19 novembre nell’ambito della Settimana SRI, la maggior parte delle certificazioni esistenti (figura 1) si applica a fondi azionari e obbligazionari di tipo UCITS o fondi armonizzati.

Figura 1 – Le certificazioni di sostenibilità in Europa

                                 Figura 1 - Le certificazioni di sostenibilità  in Europa

Fonte: “L’Unione Europea e la finanza sostenibile: impatti e prospettive per il mercato italiano”, Forum per la Finanza Sostenibile

Peraltro, l’indagine sulle politiche d’investimento sostenibile adottate dagli investitori istituzionali italiani condotta dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali conferma come i fondi SRI più frequentemente inclusi nei portafogli in gestione diretta sono quelli “tradizionali”, intesi come fondi azionari, bilanciati o obbligazionari. Ciononostante, risultano tutt’altro che irrilevanti le percentuali di chi acquista prodotti “alternativi” legati, in particolare, al settore immobiliare, delle energie rinnovabili e del private equity (tra il 30 e il 38% delle risposte), ai quali generalmente non si applicano le certificazioni sopra elencate.

Figura 2 – Le tipologie di prodotti acquistate direttamente dagli investitori istituzionali italiani

Figura 2 - Le tipologie di prodotti acquistate direttamente dagli investitori istituzionali italiani

Fonte: Sesto Report Annuale su “Investitori istituzionali italiani: iscritti, risorse e gestori per l’anno 2018”, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Lo sviluppo della finanza sostenibile sembra allora aver raggiunto un punto di svolta: la strada verso la trasparenza appare ancora lunga e dipenderà da quanto e come regolatori e mercato sapranno declinare questo principio nell’operatività, ma il sentiero tracciato in sede europea appare all’avanguardia e ben avviato.

Michaela Camilleri, Area Previdenza e Finanza Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

25/11/2019

 
 

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