Inflazione, guerra e pandemie: quali ripercussioni sui patrimoni istituzionali?

La guerra in Ucraina ha infiammato l'inflazione e ridotto le aspettative di crescita, mentre accelera il processo di riduzione delle politiche monetarie accomodanti da parte delle Banche Centrali. Per i grandi investitori istituzionali del Paese si apre un nuovo capitolo: come adeguare l'asset allocation restando coerenti con la propria mission?

Gianmaria Fragassi

L’inflazione - al pari delle pandemie e delle guerre - non è più un fattore esterno, esogeno o un enigma oscuro da risolvere. Il mondo avanza a una velocità superiore alle nostre previsioni e così ciò che un tempo appariva come qualcosa di altamente improbabile, oggi è parte integrante della nostra economia, va “semplicemente” integrato e gestito nel miglior modo possibile. Del resto, diversi economisti hanno nel tempo descritto l’inflazione come un qualcosa di necessario, al pari della pressione arteriosa del nostro corpo: entrambe sono variabili dinamiche che vanno mantenute sotto controllo. L’inflazione, come la pressione, non deve però essere né troppo bassa né troppo alta, bensì “inferiore ma vicino al 2%”. Questo è l’obiettivo statutario della BCE dal 2003, oggi corretto in “pari al 2% nel medio periodo”. Questo obiettivo, chiaro e simmetrico, rafforza il margine di sicurezza contro i rischi di deflazione, sostiene l'ancoraggio delle aspettative di inflazione e ha funzionato. Nel periodo dal 1999 al 2021 l’inflazione nell’Eurozona si è infatti mantenuta in media pari al 2%. 

Figura 1 - Inflazione nell’area Euro, gennaio 1999 - giugno 2021 

Figura 1 - Inflazione nell’area Euro, gennaio 1999 - giugno 2021

Fonte: Banca d’Italia, Eurosistema - BCE

Tralasciando pandemie e guerre – anche se va detto che un mondo in guerra resta comunque esposto strutturalmente all’inflazione - il tema e il conseguente diffuso innalzamento dei tassi di interesse meritano una riflessione approfondita. La dinamica dell’aumento dei prezzi sarà un fattore duraturo – perlomeno nel medio  termine – e impattante per tutti gli investitori che dovranno fare i conti con questi nuovi scenari. Ma da cosa dipende l’inflazione e che peso può avere sui portafogli di investimento? Nonostante gli investitori istituzionali di lungo periodo siano per definizione meno soggetti alla volatilità di breve termine, è necessario che ricerchino rendimenti attesi stabili nel tempo a fronte di un livello di rischio coerente con la propria mission


Inflazione "buona, brutta o cattiva"? 

Per prima cosa, occorre fare una distinzione per indentificare le diverse tipologie di inflazione: come menzionato in precedenza, quella “buona” è un’oscillazione data da un importante aumento della domanda aggregata. In questo caso, la domanda è appunto robusta, così come lo sono i livelli di occupazione; il potenziale è quello di una fase di crescita economica con aumento dei consumi immediati. L’inflazione è “cattiva” quando generata da uno shock dei prezzi lato offerta. Lo shock al quale stiamo assistendo oggi è certamente il rialzo degli energetici: prezzi alle stelle, deterioramento dell’attività economica e minore reddito reale disponibile. Oltre a essere buona o cattiva, l’inflazione può essere però anche brutta secondo Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea: «L’esempio classico è quello di un rialzo dei prezzi energetici che si traduce per l’area euro in una modifica delle ragioni di scambio e una riduzione del reddito reale disponibile. L’ultimo tipo di inflazione (quella “brutta”) emerge, indipendentemente dai fattori scatenanti, quando le aspettative dell’inflazione futura si de-ancorano e l’inflazione diventa persistente attraverso una spirale prezzi-salari-aspettative». 

L’inflazione può però essere anche “da produzione interna” oppure “da importazione” dall’estero. In Europa e in Italia, ad esempio, l’aumento del fenomeno inflattivo ha una forte componente di importazione: qui, infatti, hanno inciso sicuramente l’aumento dei beni alimentari causato dall’invasione russa ai danni dell’Ucraina e la crescita del costo dell’energia. Si parla appunto di inflazione importata quando i prezzi di servizi o beni acquistati all’estero aumentano; se tanto più il Paese ha una forte impronta industriale di trasformatore di materie prime, come ad esempio succede in Italia, si può parlare di inflazione da costi (comunque d’importazione). L’inflazione importata è per definizione cattiva in quanto non sintomatica dell’aumento dei consumi a seguito dell’aumento dei redditi. Per quanto riguarda l’Europa, secondo i dati Eurostat diffusi a metà agosto (18 agosto), il tasso annuale dell’inflazione dell’area Euro è salito all’8,9% a luglio dall’ 8,6% di giugno contro il 2,2% di luglio 2021; rispetto a giugno, l’inflazione annuale è diminuita in 6 Stati membri, è rimasta stabile in 3 ed è aumentata in 18. In Italia l’inflazione armonizzata a luglio scende leggermente dall’8,5% all' 8,4%. 

Figura 2 - Tassi di inflazione annui a luglio 2022, valori percentuali       

Figura 2 - Tassi di inflazione annui a luglio 2022, valori percentuali                     Fonte: Eurostat

Sempre stando ai dati Eurostat il contributo più elevato all’inflazione è arrivato, come previsto, dall’energia (+4,02%)  seguita da cibo, alcol e tabacco (+2,08%), servizi (+1,60%) e beni non legati all’industria energetica (+ 1,16%). L’Eurosistema stima che l’inflazione sarà in media pari a circa il 7% nel 2022. Già nel 2023 dovrebbe invece scendere su livelli considerevolmente più bassi, a circa il 3,5%, per tornare attorno al 2% nel 2024. Secondo quanto dichiarato da Ignazio Visco in occasione di un convegno tenutosi lo scorso mese di giugno (16 giugno 2022, Forum Analysis, Milano), «oggi le aspettative d’inflazione sugli orizzonti più distanti non si discostano significativamente dal 2 per cento. Le ultime previsioni delle maggiori istituzioni internazionali e degli analisti privati concordano con quelle dell’Eurosistema, indicando che la crescita dei prezzi nell’area euro si manterrà elevata quest’anno per poi flettere in modo deciso nel 2023 e tornare successivamente attorno al 2 per cento; anche le quotazioni delle attività finanziarie indicizzate ai prezzi al consumo confermano l’ancoraggio delle aspettative a lungo termine». 

Al contrario, negli Stati Uniti, l’alta inflazione è certamente dovuta a un mercato del lavoro con segno positivo e dinamiche salariali in crescita. Se in Italia in particolare, purtroppo, il mercato del lavoro rimane più ingessato e i salari fermi, negli USA la situazione è molto più dinamica. L'IPC (Indice Prezzi al Consumo) statunitense su base annua per il mese di luglio si è attestato all’8,5%: il dato è in calo rispetto al 9,1% di giugno, e addirittura più basso delle stime (8,7%). Alcuni esperti intravedono in questo lieve calo inflattivo una prima inversione di rotta per un ritorno a punti base più normali dell’inflazione americana. Continua inoltre la stretta monetaria della FED con tassi di interesse che resteranno più alti per più tempo: nonostante i buoni dati sull’inflazione, infatti, la Federal Reserve continua a ipotizzare un ulteriore aumento di 75 punti base per settembre dagli attuali 2,5% (ben al di là della aspettative di inizio anno della stessa FED). È interessante la teoria sposata proprio da Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, chiamata disinflazione immacolata, ovvero un’alta inflazione (anche intorno al 10%) che in poco tempo scende al 2% senza che questo comporti una recessione. Per Powell è insomma ipotizzabile una riduzione dell’inflazione di diversi punti percentuali senza incidere negativamente sulla crescita dell’economia reale, un fenomeno che già si è verificato in passato negli Stati Uniti. Una disinflazione immacolata è possibile sino a quando l’inflazione non entra nelle aspettative degli agenti economici (famiglie, imprese): in Italia se ne ebbe la prova con l’ugualmente rapido accendersi e spegnersi di alcuni “focolai d’inflazione” nel periodo della transizione dalla lira all’euro.

Per portare un altro esempio di come l’incremento dei prezzi dell’energia stia sconvolgendo i paradigmi dell’economia in tutto il mondo, ecco arrivare le stime della Banca d’Inghilterra che prevede un’impennata al 18,6% nel Regno Unito per gennaio 2023 dal 10,1% su base annua di luglio 2022. Anche in UK prosegue intanto la politica rialzista dei tassi di interesse: si è già passati dallo 0,75% di marzo 2022 all’ 1,75% di agosto 2022. 

Altro aspetto da valutare e analizzare con cura, e non meno impattante sui mercati del fenomeno inflattivo stesso, sono le previsioni e le aspettative di Inflazione in relazione al PIL di una nazione. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) di aprile e la successiva nota di aggiornamento (NADEF) di fine settembre sono i due punti di partenza annuali per tutte le attività economiche italiane, il principale riferimento per la programmazione con orizzonte a 3 anni. In attesa della nota di aggiornamento, l’ultimo DEF - risalente al 7 aprile 2022 - presentava una discreta situazione economica: «Nel 2021 l’economia italiana ha messo a segno un buon recupero, con una crescita del PIL pari al 6,6 per cento in termini reali e una discesa del deficit e del debito della Pubblica amministrazione (PA) in rapporto al PIL più accentuata del previsto, rispettivamente al 7,2 per cento e al 150,8 per cento del PIL (dal 9,6 per cento di deficit e 155,3 per cento di debito del 2020). La crescita del PIL registrata in corso d’anno dall’Italia (quarto trimestre 2021 su quarto trimestre 2020) è risultata la più elevata tra quella delle grandi economie europee». 

Le stime del DEF però sono state riviste al ribasso con guerra, energia e inflazione quali principali imputati delle revisioni. Le tensioni geopolitiche continuano a ripercuotersi negativamente sull’economia dell’Eurozona avviandola verso un percorso di crescita inferiore e caratterizzato da un’inflazione più elevata. La Commissione Europea nelle sue Previsioni Economiche Intermedie dello scorso 14 luglio ha stimato una crescita per l’Unione del 2,7% nel 2022 e dell'1,5% nel 2023. La crescita nella zona Euro dovrebbe attestarsi al 2,6% nel 2022, per poi scendere all'1,4% nel 2023. Si prevede che l'inflazione media annua raggiunga i massimi storici nel 2022, attestandosi al 7,6% nella zona Euro e all'8,3% nell'UE, per poi scendere rispettivamente al 4,0% e al 4,6% nel 2023.  

In conclusione, l’inflazione è una condizione economica complessa, difficile da prevedere o contenere - anche con strumenti molto adeguati a tenerla sotto controllo (giusto per citarne uno, il rialzo tassi da parte dei governi centrali) - e condizionata da diversi fattori, talvolta tra loro poco correlati: va quindi gestita e utilizzata a seconda delle proprie necessità in termini di ritorni da investimenti. Il rischio è che l’attuale situazione inflativa non sia, e anzi già non si sta dimostrando come tale, come quel “fenomeno temporaneo” descritto da Powell o inizialmente previsto anche dalla Presidente della BCE Christine Lagarde. Si è anzi già rivelata molto più alta e duratura di ogni previsione. 

Ora aspettiamo di toccare il picco, ben consci del fatto che nessuno potrà realmente prevederlo, né in Italia né nell’Eurozona né tantomeno negli Stati Uniti. 

 

Gianmaria Fragassi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

12/9/2022

 
 

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