Investitori istituzionali e sostenibilità, avanti tutta verso una nuova consapevolezza

L'ultima indagine Itinerari Previdenziali conferma la grande attenzione della platea istituzionale nei confronti della sostenibilità ambientale, sociale e di governance: malgrado scenari geopolitici, economico-finanziari e normativi sempre più sfidanti, aumenta la percentuale (57%) di enti che adottano formalmente una politica SRI

Gianmaria Fragassi e Mara Guarino

Si conferma in costante crescita l’attenzione di enti previdenziali, Fondazioni di origine Bancaria e comparto assicurativo nei confronti della sostenibilità: oltre la metà (il 57%) dei rispondenti alla settima survey annuale condotta dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali dichiara infatti di adottare politiche di investimento sostenibile. Tra quanti ancora non lo fanno, ampio il numero degli enti che ne ha quantomeno discusso in ottica futura (32 su 56), mentre un’analisi più approfondita dei portafogli svela l’acquisto di prodotti ESG anche da parte di una quota consistente di quegli investitori che ancora non aderisce “formalmente” alla finanza SRI. 

Un risultato non scontato alla luce non solo del rallentamento documentato lo scorso anno, ma anche e soprattutto di un contesto globale (basti pensare, a titolo esemplificativo, alle dichiarazioni di  Trump, prima in campagna elettorale e poi dopo il suo ritorno alla Casa Bianca) meno favorevole agli investimenti sostenibili del recente passato

Figura 1 - L'ente adotta una formale politica di investimento sostenibile SRI? 

Figura 1 - L'ente adotta una formale politica di investimento sostenibile SRI?

Fonte: Quaderno di Approfondimento 2025 - “ESG e SRI, le politiche di investimento sostenibile degli investitori istituzionali italiani”

 

Il campione e le finalità della survey 

Con l’obiettivo di scattare una fotografia quali-quantitativa del processo di integrazione dei criteri ESG nei portafogli istituzionali, la pubblicazione – realizzata con il patrocinio di ASviS, Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, e presentata all’interno della prestigiosa cornice offerta dal Festival dello Sviluppo Sostenibile - muove le sue premesse dalla somministrazione di un questionario volto a indagare pianificazione e modalità di attuazione delle politiche di investimento sostenibile da parte dei principali player istituzionali del Paese. Sono 131 gli enti rispondenti nel 2025, a fronte dei 128 dello scorso anno, per un totale patrimoniale - al netto delle Compagnie di Assicurazione - di oltre 263 miliardi di euro, pari a circa il 90,5% dei patrimoni finanziari totali degli investitori, previdenziali e fondazionali, italiani. 

Nel dettaglio, hanno partecipato: tutte le 19 Casse di Previdenza privatizzate (con esclusione di ONAOSI), per un totale attivo rappresentato di oltre 107 miliardi; 39 Fondazioni di origine Bancaria, per 36,4 miliardi di attivo, vale a dire circa il 75% del totale attivo delle 85 Fondazioni italiane; 22 fondi pensione preesistenti e 30 negoziali, per un ANDP rispettivamente di 53,4 (pari a circa il 79,5% dell’ANDP complessivo) e 66,65 miliardi di euro (il 98,2% dell’ANDP complessivo); 21 Compagnie di Assicurazione, per un totale investimenti superiore ai 335 miliardi, rappresentativo di circa il 48% del totale investimenti della classe C (rami Vita diversi dai prodotti Linked e rami Danni).  

 

L’attenzione alla sostenibilità

Dopo la leggera flessione, almeno in termini percentuali, registrata dall’edizione 2024, torna a salire sia in valori assoluti sia in percentuale il numero di investitori istituzionali che risponde positivamente alla domanda cruciale della survey sull’adozione (o meno) di una politica di investimento sostenibile: sono 75 su 131 i rispondenti gli enti che integrano formalmente i criteri ESG nei propri portafogli. Un segnale interessante se si considera appunto che, dopo anni di boom, nei quali si è addirittura temuto l’effetto “moda”, gli investimenti sostenibili hanno vissuto un’importante fase di messa in discussione: eppure, tra i  56 “no” sono ben 32 gli enti che spiegano di averne comunque discusso in CdA con l’intenzione di implementare una politica di investimento sostenibile in futuro, con la concreta prospettiva di arrivare dunque a sfiorare il 90% di “aderenti alla finanza SRI” entro qualche anno. Altrettanto interessanti le altre motivazioni alla base delle risposte negative, con un numero paritario di enti (il 16%) che si divide tra il non aver mai portato il tema in CdA e l’averne invece discusso, salvo optare per la mancata inclusione; tra le ragioni citate - pur senza percentuali impattanti - anche i costi, menzionati dal 3,5% dei rispondenti, e la mancanza di rendimenti competitivi (1,8%). 

A riprova di un quadro complessivamente stabile nel confronto con lo scorso anno, meritano poi attenzione due ulteriori rilievi statistici, a partire dalla quota di patrimonio cui  sono  applicate le politiche ESG. Opzione più votata per il sesto anno consecutivo, in questa edizione con il 47% delle preferenze (erano il 44% nel 2024), quella relativa a una percentuale compresa tra il 75% e il 100% del patrimonio. Quanto al secondo dato, ovvero quello relativo alla “durata di applicazione” delle politiche ESG, salgono dal 19% al 26% gli investitori sostenibili di lungo corso, indiretta indicazione di una strada che difficilmente viene abbandonata una volta intrapresa. 

In linea con le precedenti survey anche obiettivi e motivazioni principali che si spingono verso la finanza SRI: a spiccare ancora una volta la volontà di contribuire allo sviluppo sostenibile (93%, contro l’82% della precedente rilevazione). Se quella etica resta la motivazione preponderante, non vanno trascurate le ragioni di natura più tecnica, come quella legata alla mitigazione dei rischi in portafoglio, scelta dal 71% dei rispondenti. Stabile al terzo posto, con il 48% delle scelte, il miglioramento della reputazione dell’ente, cui fanno seguito a pari merito (18%) ricerca di migliori rendimenti finanziari e pressione del regolatore che, malgrado l’allentamento e il ripensamento normativo in corso in questi ultimi mesi, lascia gli investitori in vigile allerta (pari al 20%, toccata nel 2023, la soglia massima ottenuta in passato da questa motivazione). 

Figura 2 - Quali sono le principali barriere all'implementazione di politiche di investimento sostenibile? 

Figura 2 - Quali sono le principali barriere all'implementazione di politiche di investimento sostenibile?

Fonte: Quaderno di Approfondimento 2025 - “ESG e SRI, le politiche di investimento sostenibile degli investitori istituzionali italiani”

D’altro canto, benché in calo rispetto al 62% dello scorso anno, proprio la difficile misurabilità di impatti e performance viene citata dal 53% degli enti come una delle principali barriere all’implementazione delle politiche ESG: a pesare sia la mancanza di una definizione univoca di sostenibilità (56%) sia una normativa di settore ancora in fieri e, anche per questa ragione, spesso percepita come poco chiara o foriera di dubbi e confusione (50%). Mentre 1 ente su 3 lamenta gli elevati costi in termini di risorse e tempo necessari a sostenere politiche ESG-compliantaumenta dal 10% al 14% chi pensa che il ricorso agli investimenti sostenibili potrebbe pregiudicare i rendimenti. 

La sensibilità del mercato istituzionale trova insomma conferma ma lo slancio verso la finanza SRI sembra essersi fatto più prudente: del resto, nel valutare gli effetti delle proprie politiche, e dunque nel compiere il passaggio dalle ragioni teoriche agli impatti “pratici”, solo il 10% dei rispondenti palesa benefici effettivi in termini di performance, mentre quelli sul versante della mitigazione del rischio complessivo in portafoglio vengono colti dal 70% dei rispondenti (erano il 63% lo scorso anno). Rialzo dei tassi di interesse, spinta inflattiva e volatilità dei mercati hanno senza dubbio segnato gli investitori nel biennio 2022-2023 spingendoli verso un generalizzato atteggiamento di maggiore cautela che si è riversato anche nei confronti della sostenibilità, ancora di più alla luce delle recenti tensioni geopolitiche e della possibile guerra commerciale scatenata dai dazi di un Donald Trump tutt’altro che noto per il suo supporto ai temi ESG, hanno in questi mesi rallentato anche l’impeto della normativa comunitaria. 

 

L’integrazione dei criteri ESG: le strategie adottate

Per quanto riguarda l’implementazione delle politiche d’investimento sostenibile, l’indagine offre poi uno spaccato sia delle strategie utilizzate sia delle modalità con cui i criteri ESG vengono applicati maggiormente. Con un valore in leggera decrescita rispetto al 2024, al primo posto si posizionano per il settimo anno consecutivo le esclusioni (63%), seguite da best in class (36%) e convenzioni internazionali (32%). Mentre si issa fino alla quarta posizione l’engagement (31%), spesso fanalino di coda nelle precedenti edizioni del Quaderno, ottengono rispettivamente il 28% e il 25% delle preferenze investimenti tematici e impact investing

Scendendo ancor più nel dettaglio, dalla survey emerge che, verosimilmente per effetto del protrarsi dei conflitti bellici in tutto il mondo, le esclusioni riguardano soprattutto prodotti collegati al mercato delle armi (90%): una percentuale che solleva più di qualche spunto di riflessione sul ruolo che gli investitori istituzionali potranno o meno avere nel finanziamento del programma ReArm Europe. Molti anche gli enti che escludono investimenti riconducibili a lavoro minorile, tabacco e gioco d’azzardo (59%) e pornografia (58%); da rimarcare inoltre il 14% del nucleare, altro tema che potrebbe divenire cruciale e al contempo divisivo in un futuro nemmeno troppo prossimo. Se sul versante delle convenzioni internazionali spicca il primo posto del Global Compact dell’ONU, indicato dal 100% dei votanti, per quanto concerne la strategia best in class, l'attenzione verso la tutela dell'ambiente raccoglie la prima posizione grazie alla riduzione delle emissioni (al 60% ma in calo sull'anno precedente); al secondo posto delle preferenze, si posiziona il rispetto dei diritti umani con il 48%, seguito dall'effecientamento energetico, votato dal 36% dei rispondenti. 

Figura 3 - Criteri E (Environmental), S (Social) e G (Governance): quale lettera è preponderante nelle scelte? 

Figura 3 - Criteri E (Environmental), S (Social) e G (Governance): quale lettera è preponderante nelle scelte?

Fonte: Quaderno di Approfondimento 2025 - “ESG e SRI, le politiche di investimento sostenibile degli investitori istituzionali italiani”

Limitare l’integrazione dei criteri ESG alla sola questione climatica e/o ambientale significherebbe però semplificare eccessivamente la complessità delle scelte degli investitori italiani, anche se è innegabile che l’ambiente sia il faro che le orienta nel campo della sostenibilità. Tanto che, a domanda diretta, gli intervistati rispondono di trovare la componente Environmental predominante rispetto alle altre: mentre l’ambiente raccoglie il 39% delle preferenze, la componente sociale tocca quota 34%, con la governance che non supera il 27% dei voti. Ulteriore dimostrazione arriva poi dai dati sugli investimenti tematici: anche qui, chiara la predilezione per i temi ambientali con efficientamento energetico e cambiamento climatico rispettivamente al 97% e al 77% delle preferenze; significativi anche gli investimenti in salute (66%), immobiliare sostenibile (63%) e Silver Economy, che sale dal 27% dello scorso anno al 51% del 2025. 

Tornando alle principali strategie SRI, mentre il social housing (84% delle risposte, contro il 75% dello scorso anno) e i green o social bond (che passano dal 50% al 52%) sono costantemente tra gli ambiti preferiti nell’alveo dell’impact investingsi mantiene stabile in cima alle preferenze degli investitori che ricorrono all’engagement l’approccio softscelto dal 64%, valore in costante crescita dal 47% registrato nel 2022. Interessante però rimarcare anche la rilevante percentuale registrata dalla risposta “altro”: molti gli investitori che segnalano un mix tra le due modalità soft e hard o, ancora, come l’attività di engagement non sia svolta direttamente quanto piuttosto per il tramite dei propri gestori.

 

L’orientamento verso il futuro e il ruolo della normativa europea

 Oltre a inquadrare le principali tendenze del presente, l’indagine offre ancora qualche spunto sulla possibile evoluzione degli investimenti sostenibili per gli anni a venire. Evoluzione che, malgrado gli evidenti elementi di difficoltà, continua a mostrarsi positiva: il 57% degli intervistati (erano però il 66% lo scorso anno) afferma di voler incrementare la propria esposizione nei confronti di strumenti sostenibili. Ad attirare l’attenzione in ottica prospettica sono ancora una volta le esclusioni (56%), seguite da investimenti tematici (52%) e best in class (39%); tra i settori di maggior interesse meritano invece di essere segnalate le energie rinnovabili, che mantengono il primo posto con il 77% delle indicazioni, precedendo Silver Economy (47%) e infrastrutture sanitarie, sul podio insieme all’housing sociale con il 40% dei “voti” ottenuti. 

A incidere sulle prospettive della finanza SRI è però oggi più che mai la normativa, cui la survey dedicata quindi una serie di domande specifiche, indagando l'approccio al regolamento SFDR (attualmente in fase di revisione), ai modelli RTS che i gestori/collocatori di fondi dovranno utilizzare nelle comunicazioni e, a partire da quest'anno, anche all'adozione dei PAI (Principal Adverse Impact). In verità, stando agli esiti del questionario, buona parte dei rispondenti valuta come limitati gli effetti di SFDR, risultato comprensibile se si considera che, per forza di cose, molti di qesti enti sono ancora in una fase di studio e analisi del quadro legislativo. Al momento, il 24% degli istituzionali non ha in portafoglio fondi Articolo 8 o 9, mentre si azzera la percentuale di quanti detengono fondi sia Art.8 che Art.9 di diritto italiano (era il 2% lo scorso anno). Se solo il 32% dei rispondenti dichiara di prendere in considerazione i PAI, e dunque i principali effetti negativi sui fattori di sostenibilità, per quanto riguarda gli RTS, il 61% aggiunge poi di non sapere o di non aver ricevuto informative, se non al più parziali: il che sembra palesare una certa difficoltà nel processo di adeguamento a nuove procedure

Non solo, verosimilmente in virtù della consistente evoluzione legislativa di questi ultimi anni, ammonta al 18% la percentuale di enti che giudica come insufficiente la propria conoscenza della regolamentazione, a fronte di un 4% che la reputa ottima e di un 38% che la valuta come buona. Non a caso, quasi 9 enti su 10 – pari all’88% degli intervistati - palesano la volontà di avviare percorsi di formazione interna, pur non avendo spesso ancora preso concrete misure in questa direzione. D’altra parte, solo nel 27% dei casi fondi pensione, Casse di Previdenza, Compagnie di Assicurazione e Fondazioni di origine Bancaria dispongono di una figura (12%) o di un team interno (15%) dedicato; di qui, la consapevolezza di doversi dotare di competenze, attraverso la formazione e/o ricorrendo a risorse esterne, quali ad esempio advisor specializzati. Quasi 1 ente su 2 (il 49%) dichiara di demandare in toto all’esterno la gestione degli investimenti ESG. 

Pur con qualche inevitabile margine di aggiustamento, come quello relativo alla formazione, i risultati della survey rivelano un consolidamento dell’impegno degli investitori istituzionali nei confronti della sostenibilità, ambientale, sociale e di governance, anche nel corso di questi ultimi turbolenti mesi. La strada è ormai tracciata e, se la “crisi” degli investimenti ESG non è ancora del tutto alle spalle, l’occasione può essere propizia per una ritrovata fiducia e rinnovata consapevolezza verso la finanza SRI. 

Gianmaria Fragassi e Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

13/5/2025

 
 

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