Il mercato del lavoro italiano tra record e contraddizioni

Gli ultimi numeri sono buoni ma lo scenario complessivo pare meno esaltante di quanto i record potrebbero far pensare: mentre i tassi di occupazione continuano a soffrire pesantemente il confronto con l'Europa e la politica dei bonus offre soluzioni temporanee e poco utili, mancano politiche attive che risolvano il mismatch e interventi concreti a favore dei salari

Alberto Brambilla e Claudio Negro

I dati Istat sull’occupazione del mese di aprile sono decisamente buoni: record di occupati, record di dipendenti con contratto a tempo indeterminato, record di tasso d’occupazione. Resta stabile il tasso di inattività ma scende il tasso di disoccupazione: fatto che manifesta un mercato del lavoro decisamente orientato alla crescita.

Anche se, nonostante l’evidente crescita, i nostri numeri ci relegano ancora nella parte bassa delle classifiche europee: il tasso occupazionale tra i 20 e 64 anni è del 66,5%, mentre quello medio europeo è del 75,4%. Il tasso d’occupazione femminile è del 56,8% rispetto al 70,2% medio europeo. Da notare che il tasso d’occupazione maschile supera quello femminile di 19,5 punti, contro una media europea del 10,2%. Il tasso d’occupazione giovanile (15-24 anni) è al 20,8% contro il 35,2% europeo. La prestazione migliore è significativamente quella della classe over 55, che segna un 58,3% contro una media europea del 64,3%: è il primo risultato della revisione dei requisiti di pensionamento (APE sociale, Opzione Donna, precoci, lavori gravosi, e così via) che avevano notevolmente aumentato i pensionamenti anticipati.

Per mettere a fuoco con precisione le dinamiche del mercato del lavoro, è opportuno integrare i dati di stock con le dinamiche più recenti: assunzioni, cessazioni, transizioni. Nel quarto trimestre 2023 le assunzioni sono aumentate del 3,3%, in gran parte a tempo indeterminato (+1,2%), mentre sono diminuite quelle a termine (-0,7%), sicché l’incidenza dei tanto vituperati contratti precari sul totale dell’occupazione scende al 15% (la media UE è 14,5%). Ma veniamo alle cessazioni: quelle di contratti a tempo indeterminato sono scese, nel corso del 2023, dell’1,5%. Interessante esaminare in dettaglio anche le causali di cessazione: quelle promosse dal datore di lavoro sono meno del 50% del totale, in calo di quasi 3 punti dal 2022; e attenzione perché si tratta in realtà in gran maggioranza di cessazioni di contratti a termine. Aumentano invece le dimissioni (+1,7%), tendenza che determina un abbassamento della vita media dei rapporti di lavoro: a prescindere dal tipo di contratto, le durate più diffuse sono quelle fino a 1 mese (1.161.390) e quella tra 3 e 12 mesi (1.443.445). Rispetto al 2022 la durata più breve è scesa di 1,6 punti e quella più lunga è aumentata di 10,7. Da notare, in particolare, che la vita media di un rapporto a tempo indeterminato supera di pochissimo i 24 mesi. Infine, a proposito di precariato, occorre notare che nel 2023 le nuove assunzioni con contratti a tempo indeterminato sono state 1.083.740, assunzioni alle quali vanno però aggiunte 788.387 trasformazioni di contratti a termine in contratti stabili. Questo per ristabilire la realtà perché il contratto a termine non è puro sfruttamento ma svolge invece molto spesso la funzione, anche se impropriamente, di contratto d’ingresso o addirittura di apprendistato.

Queste osservazioni ci parlano di un mercato del lavoro solido e in crescita, ma un outlook sul futuro non immediato deve tenere conto non solo, com’è ovvio, degli andamenti dell’economia reale, ma anche del fatto che il nostro sistema presenta "malware” potenzialmente disastrosi. Innanzitutto, il tasso di occupazione complessivo, nonostante la recente crescita, è attestato al 62,3% contro una media OCSE del 70% ed europea del 75%: il 32% della popolazione in età da lavoro non lavora e non cerca occupazione. Si tratta di oltre 12 milioni di persone, a carico del 62% che lavora ma che (e qui si insinua il secondo malware) guadagna sensibilmente meno del resto d’Europa (decismo posto per salario medio lordo annuo). L’ultimo dato estremamente preoccupante è il cosiddetto mismatch, ossia il fatto che un alto numero di disoccupati (1.850.000, per non parlare dei 12 milioni di inattivi) convive con un alto numero di posti di lavoro vacanti (il 2,2% della domanda di lavoro). Dato empiricamente confermato dall’Osservatorio Excelsior-Unioncamere, che racconta, a ogni trimestre, come le imprese abbiano difficoltà ad assumere circa il 50% delle figure professionali, sia di basso sia di alto livello, che ricercano.

È evidente che il problema strutturale del nostro mercato del lavoro è mettere in relazione la domanda con l’offerta, cosa che richiede politiche ad hoc: formazione, a partire dalla scuola certo, ma anche continua e sul lavoro per evitare che a 60 anni una persona abbia delle competenze ormai obsolete. Tanto più in un Paese, il "più vecchio" d'Europa, al quale si porrà la necessità di alzare l’età media di pensionamento anticipato, al momento tra le più basse. Occorrono poi strutture che orientino le persone nel mercato del lavoro, fino ad accompagnarle all’assunzione. A poco servono i numerosi bonus che abbassano il costo del lavoro per le aziende o aumentano la retribuzione netta in busta paga, grazie a detassazioni e decontribuzioni: non solo perché si tratta di misure temporanee, ma anche perché vanno a sostituirsi a un sano mercato contrattuale delle retribuzioni. È strabiliante sentire certi sindacalisti che, anziché fare scioperi generali come quelli rarissimi ma efficacissimi della IG Metal o dei sindacati del settore auto USA, per rinnovare i contratti e allinearli in termini reali, utilizzando soprattutto la contrattazione di secondo livello, se la prendono con il governo che “abbocca” e carica sull’intera collettività le decontribuzioni e il TIR (Trattamento Integrativo del Reddito) per migliorare le buste paga.

Un’operazione che poteva essere giustificata nell’anno dell’inflazione, in attesa dei nuovi contratti, ma che non può essere procrastinata nel tempo. All’INPS in due anni mancheranno oltre 30 miliardi di contributi: con quali soldi pagheremo le pensioni? Tagliando forse, come ha fatto il ministro Giorgetti, l’indicizzazione a quelli che prendono trattamenti oltre 5 volte il trattamento minimo (circa 2.627 euro ) e che in due anni hanno perso il 10% di potere d’acquisto? Proprio i pensionati, e prima ancora lavoratori, che hanno sempre pagato tasse e contributi, mentre a quelli che hanno pagato poco o nulla la pensione è stata rivalutata ben oltre l’inflazione. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e
Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 11/6/2024 

 
 
 

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