COVID-19, cosa fare per evitare il peggio

L'aumento dei contagi da COVID-19 lascia scarso ottimismo sul futuro, che si prospetta molto difficile sotto il profilo sia sanitario sia socio-economico. Nel frattempo, resta l'amarezza per gli ultimi mesi, dove poco si è fatto per mettersi al riparo dagli effetti di un'eventuale "seconda ondata"

Alberto Brambilla

Forse non ci sarà una terza "ondata" come accadde per la spagnola e probabilmente quella attuale non è neppure la seconda ma il proseguimento della prima fase di  contagio da nuovo coronavirus che avevamo solo “congelato” con il lockdown. Sicuramente abbiamo però davanti a noi non meno di 5 mesi molto difficili: un “inverno” sociale e sanitario. Eppure, sono trascorsi 10 mesi da quando COVID-19, il "cigno nero" dell'umanità si è manifestato: che cosa abbiamo fatto? Purtroppo poco, com'è successo in molti Paesi, ma non in tutti.

Se volessimo fare polemica, potremmo cominciare con la dichiarazione di Conte del 27 gennaio, quando dichiarava che l’Italia fosse prontissima a fronteggiare l’emergenza avendo già adottato “misure cautelative all’avanguardia” e tutti i protocolli di prevenzione: insomma, un piano anti COVID stellare, però mai visto. Oppure si potrebbe chiedere perché, e sulla base di quali notizie, il 31 gennaio decretò lo stato di emergenza o, ancora, perché nessuno si sia posto la domanda, vedendo le tragiche immagini di Wuhan: "E se arrivasse anche da noi il virus, avremmo gel, mascherine, tamponi, indumenti protettivi per il personale sanitario?". Niente, né il governo né le regioni, non la maggioranza e neppure l'opposizione: nessuno! Nemmeno i nuovi "tronisti", virologi, epidemiologi infettivologi ecc. Ancora oggi hanno opinioni diverse tra loro, confondono e terrorizzano la gente, si beccano polemizzando su chi sia scienziato e chi non lo sia. Nessuno di loro e tantomeno l'OMS si è accorto di nulla; così a febbraio e marzo sono morte migliaia di persone per malattie respiratorie nonostante dosi da cavallo di antibiotici e già a dicembre negli ospedali milanesi le cosiddette polmoniti anomale erano il doppio del solito: il virus era tra noi e circolava liberamente, tant'è che nelle acque reflue di Milano e Torino c'erano tracce del suo RNA già dai primi del dicembre scorso. Ma questa ormai è storia.

Ora ci aspettano almeno altri 5 mesi difficili sia sotto il profilo sanitario sia sotto quello economico, il che significa grandi rischi di tenuta sociale. Che fare? Vediamo di essere propositivi... Per prima cosa si dovrebbero spiegare alla popolazione con chiarezza le terapie disponibili: ci sono? E quali sono? Poi, occorre risolvere i problemi più gravi legati a COVID-19: i cosiddetti “assembramenti” e la paura della popolazione spesso bombardata da notizie e previsioni normative contradditorie.

Iniziamo dal primo; dove sta la maggior parte degli assembramenti? Certamente nei trasporti, nella scuola, nei locali pubblici, negli ospedali e segnatamente nei pronto soccorso. Cosa si sarebbe dovuto fare in questi 7 mesi? Oltre a rafforzare i trasporti pubblici e mantenere l’occupazione dei mezzi al 50%, cosa che in molte regioni è stata prima fatta con grande dispendio di mezzi e poi eliminata, si sarebbe dovuto procedere a grandi convenzioni con taxi, noleggi con conducente e bus turistici, tutta gente quasi disoccupata. La soluzione è stata invece quella di distribuire “bonus” da 600 o mille euro per tre mesi quando, allo stesso costo, coinvolgendo le famiglie (molte si sono già associate per noleggiare bus turistici per i loro bambini), avremmo potuto far lavorare centinaia di migliaia di operatori nel trasporto di studenti e lavoratori. Per gli assembramenti nelle scuole si sarebbe potuto procedere facendo convenzioni con le molte scuole private e paritarie, che hanno tanti spazi a disposizione (oltre che con i comuni), anziché pensare ai banchi che peraltro erano già disponibili. Come detto, si sarebbe poi dovuto lavorare sui trasporti e soprattutto fuori dalle scuole (anche con l’esercito se serve) dove si fanno i veri assembramenti. Invece no! Didattica a distanza (DAD), brutto modo  italico per dire didattica a distanza, mentre quanto a insegnanti, secondo l’OCSE, siamo il Paese che ne ha di più per numero di studenti.

Bar, pub, ristoranti, che già hanno sofferto negli scorsi mesi, si sono trovati prima a doversi riorganizzare con distanze tavoli, igienizzanti, QR code per i menù e così via, per arriva poi alla riduzione del numero di clienti (6 massimo per tavolo, anzi no, contrordine 4) e, infine, chiusura alle 18,00. Ma non era meglio lasciare gli orari più ampi possibili in modo da consentire, previa prenotazione obbligatoria e istituzione del numero chiuso, di lavorare con almeno tre turni serali fino all’una di notte? Si sarebbe ridotto di moltissimo l’assembramento e, anziché dare bonus e fondo perduto, avremmo fatto lavorare altre centinaia di migliaia di persone e non solo, perché bar e ristoranti - spesso la politica se ne dimentica - procurano un sacco di lavoro alla filiera agro-alimentare, al packaging e alle stesse industrie che producono le attrezzature (frigo, lavastoviglie banchi ecc).

L’altro e più grave assembramento si sviluppa negli ospedali, negli ambulatori e nei pronto soccorso: c’è troppa gente ricoverata che potrebbe essere curata a casa. E qui i due temi - assembramenti e paura e insicurezza delle persone -  si fondono; cosa succede appena una persona avverte i sintomi che potrebbero dipendere da COVID? Telefona subito al “medico di base” che, nella maggior parte dei casi, non risponde perché ha in carico circa duemila pazienti. E allora, in preda al panico, ci si mette in coda in ospedale. In 7 mesi si sarebbe potuto rafforzare la sanità territoriale aumentando il numero di medici di base, ma soprattutto realizzare dei call center informativi e prioritariamente servizi di “telemedicina” grazie ai quali esperti, infermieri, medici e specialisti, sulla base dei sintomi verificati con appositi strumenti che tutti noi abbiamo in casa (saturimetri, pressione, battito, febbre ecc.), possono dare le prime indicazioni ed eventualmente mandare a casa della persona, anche a pagamento, sanitari per fare tamponi o prescrivere terapie. Invece i medici non ci sono, le terapie non si sa, non abbiamo ancora tamponi, reagenti e neppure, a oggi, i vaccini antinfluenzali, né tantomeno un punto d’ascolto.

Ci rendiamo conto che, anziché far fare la fame a qualche milione di lavoratori, li avremmo potuti far lavorare, il che significa anche più tasse incassate, meno debito pubblico e meno oneri? A fine anno tra cassa integrazione, bonus e fondo perduto avremo speso quasi 60 miliardi, cui occorre sommarne almeno altri 24 per i finanziamenti garantiti dallo Stato che non verranno rimborsati dalle oltre 100mila attività destinate alla chiusura; e avremo un milione di disoccupati in più. Con tanti test avremmo potuto tranquillizzare le persone e con i call center disporre dei necessari tracciamenti.  

Questi sono solo alcuni suggerimenti che si possono mettere in pratica anche da subito. Si eviterebbero ulteriori rievocazioni polemiche e si farebbe un gran bene alla tranquillità della popolazione, alla salute e anche all’economia. 

Alberto Brambilla Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

3/11/2020 

 
 

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