ESG, geopolitica e principi civili non negoziabili

Pandemia e invasione russa ai danni dell'Ucraina sono, in ordine di tempo, solo gli ultimi campanelli di allarme che mostrano alla società occidentale la necessità di avviarsi verso un nuovo modo di approcciare politica, mercati, sviluppo economico e finanza: cosa aspettiamo a uscire dai vetusti schemi comuni e operare con "criteri responsabili"?   

Alberto Brambilla

Pensavamo, agli esordi degli anni Duemila, di esserci lasciati alle spalle il Secolo Breve per dirla con Eric Hobsbawm, l’era dei grandi cataclismi ma anche dei “30 anni gloriosi”: le due guerre mondiali, l’epidemia della “spagnola”, la prima grande crisi energetica del 1973 causata dalla fine degli Accordi di Bretton Woods e la conseguente svalutazione del dollaro del 1973, l’inizio della guerra del Kippur e lo choc petrolifero, in parte conseguente a questi primi 2 eventi e in parte per la crisi in seno all’OPEC anche per i fatti di Libia, che portò alle stelle i prezzi degli idrocarburi e delle materie prime e da lì a un incremento generalizzato dei prezzi mentre i salari reali perdevano potere d’acquisto. In una parola “stagflazione”, uno scenario di alta inflazione e bassa o nulla crescita. Ma anche i trent’anni “gloriosi” con una ricchezza mondiale che, dal secondo Dopoguerra, è triplicata e un welfare state che raggiunse il suo massimo sviluppo; tutto ciò grazie soprattutto agli aiuti del Piano Marshall, agli Accordi di Bretton Woods e all'organizzazione del GATT tra il 1944 e il 1948; gli anni più fecondi. Passato lo choc energetico, sembrava che la caduta del muro di Berlino del 1989 e la fine della Guerra Fredda del 1991 con la dissoluzione dell’URSS aprissero spazi di speranza per il secolo entrante ma la guerra nella ex Jugoslavia con i bombardamenti del 1999 della NATO cui partecipò l’Italia, con Massimo D’Alema Presidente del Consiglio, e l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 con la “grande paura” del terrorismo islamico, ridussero le aspettative e quindi avrebbero dovuto aprire gli occhi ai governi e ai popoli. 

No, purtroppo non ci siamo lasciati alle spalle un bel nulla, anzi abbiamo fatto finta di non vedere e, per dirla con Mario Draghi, ci siamo “voltati dall’altra parte” quando la Russia di Putin ha intrapreso, con successo, le guerre in Cecenia tra il 1999 e il 2009 con il massacro al mercato di Groznyj, il bombardamento dei profughi, centinaia di morti civili, violenze, stupri e gravi violazioni dei diritti umani, come sentenziò nel 2021 la Corte Europea dei diritti dell’uomo. Abbiamo chiuso gli occhi quando nell’agosto 2008 Putin invase la Georgia e nel 2014 occupò la Crimea sottraendo questo territorio all’Ucraina. Non ci siamo neppure preoccupati quando Putin nel settembre 2015, a fianco del governo di Bashar al-Assad in Siria, bombarda e rade letteralmente al suolo Aleppo con migliaia di morti civili e consente al regime di Damasco, sconfitto, di restare al potere. Il “secolo nuovo” ci ha portato anche una pandemia simile a quella del 1918 e lì abbiamo scoperto che, dalle mascherine ai gel, dai camici protettivi a tutti gli apparati medici per febbre, ossigenazione, pressione e così via, tutto proveniva dalla Cina, un Paese che, come la Russia, teme e combatte i principi di civiltà e di democrazia delle nostre società occidentali; è proprio dalla Cina, che nel silenzio dell’OMS in cui alcuni italiani hanno ruoli di grande responsabilità, si sparge in tutto il mondo il SARS-CoV-2. Quella Cina che, in barba agli accordi sottoscritti con la Gran Bretagna nel 1997, priva Hong Kong della piena libertà politica e sociale di cui l’ex colonia britannica avrebbe dovuto beneficiare fino al 2047. 

Ora tutti i problemi che le nostre società opulente, nel caldo delle loro case e con la “pancia piena”, hanno accuratamente evitato di analizzare (risolvere sarebbe pretendere troppo) si affacciano prepotentemente: l’invasione dell’Ucraina è una dichiarazione di guerra ai nostri principi (non sempre attuati) di convivenza pacifica e rispettosa dei diritti sociali. Una presa d’atto della nostra grave dipendenza dalla Russia per gas e petrolio: per Italia e Germania oltre il 40% dell’intero fabbisogno. Capiamo oggi che la “grande globalizzazione” non ha portato solo vantaggi, prezzi bassi, aumento dei consumi al di là del necessario; ha portato dipendenze dalle produzioni cinesi senza le quali la nostra filiera produttiva si ferma; ha indotto delocalizzazioni selvagge con gravi perdite occupazionali ed enormi costi per le forme di sostegno al reddito e per ridurre le sacche di povertà a carico di bilanci pubblici sempre più esausti e indebitati come quello italiano. Verso la fine del Secolo Breve, senza che i governi se ne accorgessero (o forse se ne erano accorti ma hanno finto di non sapere), la nostra civiltà ha esaurito il ciclo storico iniziato dal secondo Dopoguerra, quella che sociologi e demografi hanno definito la grande accelerazione, cioè l’abnorme e insostenibile aumento della popolazione che ha portato con sé un eccessivo consumo di risorse naturali, una globalizzazione esasperata e una crisi climatica senza precedenti. L’aumento della popolazione è stato violento: nel 1927 la Terra raggiunge i 2 miliardi di abitanti ma già nel 1960, dopo soli 33 anni, siamo 3 miliardi di viventi; nei successivi 14 anni arriviamo a 4 miliardi, a 5 miliardi nel 1987 in soli 13 anni, a 6 miliardi nel 1999 (12 anni), a 7 miliardi nel 2011 (altri 12 anni). Più popolazione uguale maggiori consumi, un apparente inarrestabile incremento del PIL mondiale e la maggiore globalizzazione raggiunta dall’uomo ma anche un inarrestabile e insostenibile sfruttamento del pianeta, le cui risorse sono sempre meno disponibili anche a causa dei disastri climatici.

Ora se vogliamo salvare la “nostra casa comune” dobbiamo intraprendere un nuovo ciclo i cui “ingredienti” principali sono la transizione demografica, che significa un invecchiamento della popolazione mondiale e in prospettiva una sua riduzione, la transizione ecologica e quella energetica. Affrontare questi grandi problemi, rinviati da troppo tempo, significa meno PIL, meno consumi e maggiore sostenibilità ma soprattutto una strenua difesa dei “valori occidentali non negoziabili”, quali la libertà di espressione, la democrazia e il rispetto della dignità umana. L’invasione russa dell’Ucraina, come la guerra in Siria e la repressione a Hong Kong ci hanno suonato un enorme campanello d’allarme: prima con la pandemia e la completa dipendenza dalla Cina ora, con la guerra di Putin, con l’eccessiva dipendenza dal gas e petrolio russo. 

È giunto finalmente il momento del risveglio delle democrazie, il che significa impostare politiche economiche che nel giro di massimo due anni sottraggano l’Europa dalle forniture cinesi e russe: indipendenza energetica e industriale significano libertà e democrazia. E, senza accorgersi, già alla fine del Secolo Breve, è iniziata la “grande decelerazione” che, secondo l’Università di Washington, ridurrà nei prossimi decenni la popolazione mondiale, italiana compresa. Cosa aspettiamo a uscire dai vetusti schemi comuni e operare con “criteri responsabili”?   

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali      

4/4/2022

L'articolo è stato pubblicato su Il Messaggero del 24/3/2022
 
 
 

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