Il mancato pudore degli incompetenti

Troppo spesso quando si affronta il tema fiscale in Italia, la stessa dirigenza politica cade nell'errore di proposte orientate al populismo ma poco eque o difficilmente sostenibili guardando ai dati: il punto di vista di Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Alberto Brambilla

Per tutti coloro (pochi) che nel nostro Paese affrontano il tema fiscale - ma la stessa considerazione vale anche per altre tematiche - sulla base di studi e dati, sentire o leggere le affermazioni di molti esponenti politici, a volte anche ai massimi livelli di responsabilità, di alcune parti sociali e giornalisti, genera parecchio sconforto. C’è chi si avventura a proporre riduzioni dei contributi sociali (la cosiddetta "fiscalizzazione degli oneri sociali") dimenticandosi che la metà degli italiani già non li paga e che per 25 anni il Sud (tutto, e fino al 1996) ha avuto lo “sgravio totale dei contributi” senza riuscire a creare mezzo punto percentuale in più di occupazione.

C’è chi punta più in alto proponendo percentuali rilevanti (15%), senza spiegare quanto costerà alla collettività o di quanto si ridurrà la pensione: un lavoratore dipendente versando il 33% di contributi sulla retribuzione annua lorda (RAL) per un periodo di 35 anni otterrà una pensione pari a circa il 72% dell’ultima retribuzione; se ne paga 15 punti in meno (cioè solo il 18%) che pensione prenderà? Meno della metà! E che dire di un lavoratore autonomo (artigiano, commerciante o imprenditore agricolo) che, versando oggi il 24%, si troverebbe a pagare meno del 14%: che pensione prenderà? È persino ovvio che se invece mantenessimo la stessa pensione nonostante la riduzione dei contributi, l’onere graverebbe sugli stessi lavoratori sotto forma di maggiori tasse perché la quota di pensione non coperta da contributi diverrebbe a carico della fiscalità generale. Supponendo che entrino nel mercato del lavoro 400.000 nuovi lavoratori con un reddito medio di 20mila euro, solo per il primo anno lo sconto contributivo costerebbe oltre un miliardo di euro; già al quinto anno costerebbe oltre 18 miliardi.

Che dire poi di quelli che vorrebbero la riduzione del cosiddetto “cuneo fiscale e contributivo”, ma non per tutti: solo fino a redditi di non più di 29mila euro, il limite del “bonus da 80 euro” introdotto dal governo Renzi che costa ogni anno oltre 9,5 miliardi e di cui beneficiano oltre 11,7 milioni di contribuenti. Spero sappiano che, in base alle ultime dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF, risulta che oltre il 46% degli italiani (i primi 2 scaglioni di redditi) paga meno del 2,7% di tutta l’IRPEF, cioè in totale 4,32 miliardi, ma che ricevono per la sola sanità ben 47 miliardi. Se poi aggiungiamo anche i contribuenti che dichiarano dai 15 ai 20mila euro lordi, questi primi 3 scaglioni di redditi versano in totale 15,8 miliardi di IRPEF (su un totale di 164,7 miliardi), ma ricevono per la sola sanità 51,2 miliardi. Se ne deduce che il 60% dei contribuenti (lavoratori dipendenti compresi) versa attorno al 10% di tutta l’IRPEF. Si potrebbe obiettare correttamente che questi cittadini pagano anche le imposte indirette, IVA e accise: stimando il gettito sulla base delle aliquote in vigore, si può dire che il primo scaglione versa imposte indirette sulla mediana pari a 282 euro, 844 euro per il secondo scaglione e 1.313 euro il terzo, che è l’unico a pagarsi almeno la sanità, mentre i primi 2 non ci riescono. E poi c’è da finanziare tutto il resto: istruzione, viabilità, infrastrutture, spese di funzionamento del sistema pubblico, etc.

Chi paga e finanzia il nostro welfare? Per contro esiste una minoranza di poco meno di 5 milioni di dichiaranti (quelli con redditi superiori a 35 mila euro) che rappresentano solo il 12% degli italiani ma pagano quasi il 60% di IRPEF. Spesso il sindacato afferma che gli unici che pagano le imposte sono i lavoratori dipendenti e i pensionati, vero! Ma di quelli che loro rappresentano non ce ne sono molti. Prendiamo i pensionati, che al dicembre 2018 erano poco più di 16 milioni: di questi, la metà non pagano imposte perché sono totalmente o parzialmente assistiti dallo stato (cioè da quelli che le tasse le pagano); in definitiva, i primi 10 milioni di pensionati pagano 2 miliardi di IRPEF. Quelli che pagano davvero la maggior parte dei circa 50 miliardi che gravano sulle pensioni sono quelli che hanno assegni da 2.500 euro lordi in su, che sono meno di 1,6 milioni (cioè il 10%), ma che versano il 60%. Spesso non sono tutelati dai sindacati maggiormente rappresentativi ma da altre sigle che, ai governi della “dittatura della maggioranza”, non interessano perché sono pochi e spesso non votano.

Ed è proprio nei confronti di questi pensionati che si sono scatenati tutti i governi bloccando l’indicizzazione della pensione al costo della vita. Dal 2006 a oggi un pensionato con una pensione mensile di 2.500 euro ha perso praticamente un'annualità di pensionecioè quasi 30mila euro in 13 anni e altrettanti ne perderà nei prossimi 10 anni di fruizione della pensione. Che dire poi dei 36mila pensionati (lo 0,20% del totale) definiti d’oro ai quali è stata “tagliata” la pensione con l’arroganza populista di chi i calcoli non li sa fare senza alcuna giustificazione. Se, come dice certa sinistra, i soldi si prendono dove ci sono (leggi patrimoniale) per finanziare provvedimenti sbagliati e inefficienti come flat tax per i professionisti fino a 65mila, reddito di cittadinanza, Quota 100, bonus da 80 euro, quattordicesima mensilità, APE sociale (era così difficile introdurre anche nel settore produttivo, commercio e servizi i fondi esubero che da quasi 20 anni hanno risolto il problema per banche e assicurazioni?) e altri provvedimenti assistenziali, per l’Italia non ci sono molte speranze: i giovani meritevoli continueranno a scappare e quel 12% di schiavi fiscali che non interessano alla politica si ridurranno ancora di più.

Poi chi finanzierà il nostro generoso stato sociale? Passeranno al pignoramento della seconda casa? O preleveranno notte tempo il 10% dai patrimoni di chi ha contribuito allo sviluppo del Paese? Purtroppo, stante l’enorme debito pubblico e la scarsa crescita potremmo arrivare a questi limiti: poi, l’abisso.     

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

7/10/2019

 
 

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