Il sistema previdenziale è sostenibile?

La tenuta complessiva del nostro  sistema di welfare appare sempre più a rischio e chiedere nuova flessibilità potrebbe aggravare ulteriormente i problemi di sostenibilità connessi a un debito pubblico già monstre: il commento del Prof. Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Alberto Brambilla

Sostenibilità, una sfida per molti settori della nostra vita: l’ambiente, l’economia, i bilanci pubblici e così via. Ma quanto è sostenibile il nostro sistema pensionistico?

Partendo dagli ultimi dati riclassificati dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, possiamo dire che, nel complesso, il nostro sistema è oggi in “buona salute”. Andiamo con ordine: 

1) Occupazione, elemento indispensabile per la tenuta di un sistema a ripartizione (con i contributi dei lavoratori attivi dell’anno si pagano le pensioni del medesimo anno). Nel 2018 l’occupazione totale, pur risultando leggermente inferiore a quella realizzata nel maggio-giugno dello stesso anno, è stata la più elevata di tutti i tempi con 23.214.628 attivi (+ 124mila rispetto al record del 2008) pari a un tasso di occupazione complessivo del 58,7% e del 49,6% per la componente femminile (miglior risultato di tutti i tempi), dati in miglioramento anche a gennaio 2019. 

2) I pensionati, a seguito delle riforme sono stati pari a 16 milioni e 20mila, il numero più basso da 30 anni a questa parte.

3) Il rapporto attivi/pensionati, dato fondamentale per la tenuta del nostro sistema pensionistico, ha toccato il livello più alto con 1,452 lavoratori attivi per ogni pensionato, un risultato che fa ben sperare.

4) Il bilancio del sistema pensionistico evidenzia i miglioramenti registrati in tutte le variabili in questi ultimi 8 anni: le entrate da contributi versati dalla produzione (lavoratori e imprese) supera nel 2018 i 200 miliardi di euro a fronte di prestazioni pensionistiche (al netto dell’assistenza) pari a 204 miliardi; considerando tuttavia che sulle pensioni grava l’Irpef per un importo totale di oltre 50 miliardi, il saldo di cassa per lo Stato è positivo e tale da poter consentire qualche miglioramento nella flessibilità in uscita dal mondo del lavoro.

5) Le pensioni fanno bene anche all’economia in quanto aiutano i consumi. Considerando che sono in pagamento circa 23 milioni di prestazioni a beneficio dei circa 16 milioni di pensionati, ogni “quiescente” prende 1,44 prestazioni, mentre il valore medio annuo incassato da ciascun pensionato è di circa 18.000 euro l’anno per un totale di 223 miliardi pari a ben il 13% del PIL.

Tutto bene? Il sistema è sostenibile? Se per le pensioni i dati sono positivi, al netto dei costi per le modifiche introdotte con la conversione del decreto legge n. 4 del 29 gennaio 2019, altrettanto non si può dire per altre variabili fondamentali di sistema.

Vediamo prima i riflessi delle novità pensionistiche introdotte dall’attuale Governo: sommando le domande di pensionamento con Quota 100 (almeno 62 anni di età e 38 di contributi) e opzione donna, le pensioni anticipate (ottenibili con 42 anni e 10 mesi di anzianità, un anno in meno per le donne) e il rinnovo di APE sociale, al 29 marzo, dopo i primi 2 mesi di entrata in vigore del decreto, le richieste superano le 150mila unità e di questo passo, nei prossimi 9 mesi, è facile che il numero di domande si avvicini a 250 mila. In assenza di nuove massicce assunzioni, anche a causa della crisi economica che vede il tasso di sviluppo del Paese allo 0,2% - se va bene - nel 2019 e allo 0,6% nell’anno successivo, i rapporti finora indicati sono destinati a peggiorare almeno fino al 2026, data in cui si esauriranno gli effetti finanziari e demografici delle opzioni citate. Nei successivi 4 anni i rapporti, in assenza di ulteriori provvedimenti legislativi difficili da prevedere e da finanziare, torneranno a migliorare.

Ma un sistema di welfare si compone di altre due funzioni: la sanità e l’assistenza sociale. La sostenibilità si misura quindi complessivamente, tenendo anche conto del deficit annuale di bilancio, della produttività e del debito pubblico. Sul fronte assistenza e sui tre parametri citati la “frana” è totale. Il costo dell’assistenza è passato dai 73 miliardi del 2008 ai circa 116 del 2018 (+43 miliardi): sono 43 miliardi che ogni anno graveranno sul bilancio pubblico, finanziati dalla fiscalità generale (non sono coperti da contributi) e al netto delle imposte (sono tutte prestazioni esenti). Dal 2008 l’incremento della spesa assistenziale è costato ben 232 miliardi alle finanze pubbliche, per gran parte fatti in deficit.

Se guardiamo la somma dei disavanzi realizzati per ciascuno degli anni dal 2008 al 2018, anni in cui tutti i partiti (a seconda che fossero al Governo o all’opposizione) e i corpi sociali e intermedi hanno gridato alla austerity imposta dalla “cattiva” Europa, troviamo un totale pari alla stratosferica cifra di 553 miliardi - in 11 anni e 6 Governi -  con un incremento dello stock di debito del 24%; e meno male che c’era l’austerity! Dal 2013, grazie alla BCE, il nostro Paese, rispetto al picco del 2012, ha risparmiato 90 miliardi di interessi sul debito. Considerando che siamo al palo come incremento della produttività e che le nuove spese assistenziali, segnatamente il reddito di cittadinanza e le pensioni di cittadinanza, comporteranno maggiori oneri che incrementeranno deficit e debito, la sostenibilità complessiva del nostro welfare appare sempre più a rischio e chiedere nuova flessibilità all’Europa aggraverà anche i problemi di sostenibilità del nostro mostruoso debito pubblico. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

1/4/2019

L'articolo è stato pubblicato in data 1/4/2019 sul Corriere della Sera, L'Economia
 
 

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