Grandi dimissioni ed effetti sulle pensioni: quanto pesa la fuga dal lavoro?

Nonostante i bassi livelli di occupazione, crescono anche in Italia le dimissioni volontarie (per quanto con cifre non così eclatanti come quelle descritte dai media), mentre si fa sempre più grave il divario tra i posti offerti dal mercato e i lavoratori potenziali: lo specchio di un Paese che deve ridurre la spesa per assistenza e migliorare le proprie politiche attive per il lavoro se vuole evitare il default

Alberto Brambilla

Il mercato del lavoro italiano è solcato da due temi principali: il primo è quello delle cosiddette “grandi dimissioni” (great resignation), fenomeno che, iniziato nel 2021 negli Stati Uniti, secondo il Bureau of Labor Statistics, coinvolge il 75% delle aziende e oltre 47 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il posto di lavoro, e che si manifesta ora anche in Italia; il secondo, ma non meno discusso, è la riduzione del cuneo fiscale, cui si affianca il dibattito sul salario minimo. 

Prima di addentraci nel tema occupazione e grandi dimissioni vale la pena di ricordare qualche cifra: a) il nostro Paese ha il maggior numero di NEET - giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione - di tutta l’Europa, con 3.047.000 persone (il 25,1% dei giovani italiani); tra i nostri competitor la Spagna tocca quota 18%, la Francia il 14%, mentre tutti gli altri Paesi sono sotto l’11%. b) Siamo ultimi, appena battuti dalla Grecia che però ha un PIL pari al 70% di quello della Lombardia, per tasso di occupazione globale, distanti 10 punti percentuali dalla media europea (circa 70%) e 15 dai Paesi del Nord Europa; per occupazione femminile (qui le differenze sono di 12 punti rispetto alla media e 20 sul Nord Europa) e giovanile (15/24 anni), con un tasso pari alla metà della media UE e 1/3 del Nord UE. 

Nonostante i bassi livelli di occupazione, anche da noi aumentano le dimissioni volontarie, anche se in misura non rilevante, e si fa sempre più grave il divario tra i posti di lavoro offerti dal mercato e quelli che sono disponibili a lavorare: il Sistema Informativo Excelsior Unioncamere – ANPAL informa che le imprese avevano necessità di assumere 444.000 dipendenti a maggio, e 1.530.000 entro luglio e finora c’è difficoltà di reperimento di circa il 40% delle posizioni offerte, con punte del 52% per gli operai specializzati, del 45% per le professioni tecniche ma anche per le posizioni poco qualificate (oltre il 40%). Male comune? Sì, ma solo in parte. Due numeri ci aiutano a capire meglio: in Francia, nazione che ha i nostri stessi abitanti, quelli che lavorano sono oltre 34 milioni (più del 57% della popolazione); in Germania, con 80 milioni di abitanti, quelli che lavorano, compresi i mini-job, sono 41,5 milioni (il 52%); in Italia, su una popolazione in età da lavoro di oltre 36 milioni, non arriviamo a 23 milioni (meno del 38%). 

Si mettano insieme questi dati con quelli sui NEET e a che conclusione si arriva? Che l’Italia - che è tra i primi Paesi al mondo per spese superflue (gioco d’azzardo con un costo di 130 miliardi, stupefacenti, alcol, animali da compagnia, parco autoveicoli, proprietà delle case, e così via) e che riceve ogni anno dalla Pubblica Amministrazione oltre 155 miliardi nelle svariate forme di assistenza sociale totalmente esentasse (in nero), qualche decina di miliardi in bonus, mancette e, ultima trovata, l’AUUF (lo “stipendietto” di Stato dell’Assegno Unico Universale per i figli) - sta bene così! È forse crudo dirlo ma queste persone non hanno bisogno di lavorare! Tra AUUF, reddito di cittadinanza, sussidi vari e lavoretti in nero quando si ha voglia, si sbarca il lunario, con magari qualche aiutino dalla pensione del nonno o del papà e un poco di Caritas e di sussidi del Comune. Chi se ne importa se abbiamo il record europeo di evasione fiscale (200 miliardi l’anno occultati al fisco) e quello del debito pubblico.

La richiesta di sindacati e imprese è la riduzione del cuneo fiscale e contributivo; e siccome, lo sanno pure loro, che la stragrande maggioranza dei lavoratori paga meno del 3% di IRPEF e, quindi, ridurre un cuneo fiscale prossimo allo zero non dà soldi, non potendo ridurre le contribuzioni sociali per malattia, maternità, disoccupazione, cassa integrazione e infortuni e i costi per tredicesima, quattordicesima mensilità, ferie, TFR, festività, permessi e così via che incidono fortemente sul costo del lavoro, concordemente chiedono di ridurre il cuneo contributivo. In effetti, l’Italia è il Paese con la più alta contribuzione previdenziale (33% sui dipendenti), mentre la Francia sta al 27,5%, la Germania al 18,7%, Svezia e Svizzera appena sopra il 20% (quest’ultima considerando il “secondo pilastro” obbligatorio); tuttavia, questa contribuzione determina per l’Italia il tasso di sostituzione (il rapporto tra la prima rata di pensione e l’ultimo reddito) più alto in Europa, pari al 75%, rispetto al 52% della Francia e al 47% della Germania e il 50% della media OCSE. Una riduzione generalizzata di 3 punti di contribuzione previdenziale (due a favore del lavoratore e uno per le aziende) diminuirebbe il costo del lavoro ma costerebbe 18 miliardi l’anno: o l’Italia fa altri 18 miliardi l’anno di debito strutturale o si deve ridurre il tasso di sostituzione, e chi glielo spiega ai lavoratori?

Tornando alle grandi dimissioni volontarie, a marzo 2022 sono state circa 15mila, di poco superiori a quelle di marzo 2020 e comunque in linea con quelle registrate subito dopo la conclusione della fase lockdown; quindi, un numero non eclatante. Quali riflessi avranno sul sistema pensionistico i bassi tassi di occupazione, i NEET, le grandi dimissioni e le ipotizzate decontribuzioni? Attualmente su 16 milioni di pensionati, 3,7 sono totalmente a carico dello Stato, mentre circa 4 milioni sono parzialmente assistiti, per un costo totale di circa 35 miliardi l’anno. Se consideriamo la differenza tra le persone in età da lavoro e quelli che effettivamente lavorano è probabile che, di questo passo, gli assistiti nei prossimi anni aumentino ulteriormente con costi, dando per scontato l’allargamento dell’integrazione al minimo anche ai contributivi puri, per oltre 3 miliardi, cui si aggiungerebbero i 18 miliardi ipotizzati per la decontribuzione: una bella botta che forse cozzerà con le nuove regole del Patto di Stabilità illustrate da Gentiloni. 

La conclusione? Occorre che la politica riduca fortemente la spesa assistenziale, RdC e AUUF compresi, aumenti le politiche attive per il lavoro e i tassi di occupazione se non vuole che il Paese vada in defaultE non si dica che la gente fugge dal lavoro per i bassi salari perché oltre il 97% dei lavoratori ha contratti regolari stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Infine, una notizia utile: se l’inflazione a fine anno sarà pari al 6%, nel 2023 l’adeguamento delle pensioni all’inflazione al 100% per i 13 milioni di pensionati con trattamenti fino a 4 volte il minimo (2.100 euro al mese) e al 90% o al 75% per gli altri 1,3 e 1,7 milioni costerà circa 18 miliardi, e i pensionati saranno gli unici a recuperare gli effetti dell’inflazione. C’è di che riflettere.   

 Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali      

 

26/6/2022

 
 

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