Occupazione ancora in aumento ma resta il gap con l'Europa

Il mercato del lavoro italiano continua a mostrare segnali di miglioramento, pur restando in ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Una spinta importante potrebbe arrivare dall'aumento del livello di istruzione, variabile in grado di ridurre anche la disparità di genere, a patto però di risolvere il problema del mismatch 

Bruno Bernasconi

Secondo l’ultimo Rapporto Annuale dell’Istatnel 2024 il tasso di occupazione (15-64 anni) in Italia ha raggiunto il 62,2% rispetto al 61,5% dell’anno precedente, rimanendo però ancora al di sotto del 70,8% della media UE, e a fronte di un tasso di inattività pari al 33,4% (24,6% la media UE27) che riguarda soprattutto la componente femminile e i giovani. Il tasso di inattività delle donne, infatti, è pari al 42,4%, superiore di 13,1 punti percentuali dal valore medio europeo, che scende a 4,4 punti per gli uomini. L’Italia, inoltre, è l’unico Paese in cui il tasso di inattività giovanile(15-24 anni) è aumentato nell’ultimo quinquennio (dal 74,1% del 2019 al 75,3% del 2024), esclusivamente però per effetto dell’incremento per le donne, anche in ragione della loro maggiore partecipazione al sistema di istruzione.

Proprio la variabile del titolo di studio sembra rappresentare un’importante discriminante in grado di attenuare la disparità di genere: il divario a sfavore delle donne, infatti, diminuisce all’aumentare del livello di istruzione, con differenze che passano da quasi 28 punti per chi ha al massimo la licenza media, a 19,5 punti tra i diplomati fino a arrivare a 6,9 punti per i laureati. Considerando la classe di età tra 25 e 34 anni, nella quale le differenze di genere nei tassi di occupazione sono più contenute, il divario complessivo permane di 15,4 punti percentuali (il 76,2% degli uomini contro il 60,8% delle donne) ma si riduce ad appena 1,1 punti (75,2% contro 74,1%) tra i giovani con titolo terziario. Più in generale, il tasso di occupazione dei più istruiti (82,2%) risulta quasi il doppio di quello dei meni istruiti(45,1%). 

Tuttavia, nonostante la crescita, anche su questo fronte l’Italia mostra un ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Nel 2023, solo il 65,5% dei 25-64enni ha almeno un titolo di studio secondario superiore, contro il 79,8% della media UE27, un gap riconducibile principalmente alla componente di popolazione laureata: in Italia appena il 21,6% degli individui di 25-64 anni ha conseguito un titolo terziario, contro il 35,1% nella media UE27. Anche nella popolazione tra 25 e 34 anni, il livello complessivo di istruzione resta mediamente inferiore rispetto alle maggiori economie europee, sia per la percentuale ancora elevata di giovani con al più la licenza media sia per la bassa quota di laureati che, nel 2024, hanno raggiunto una quota del 31,6%. Percentuale ancora lontana dall’obiettivo del 45% definito per il 2030 dal Quadro strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e formazione.

Non solo, a differenza di molte nazioni europee, il mercato del lavoro italiano sembra incontrare maggiori difficoltà, soprattutto al Sud, nell’assorbire il giovane capitale umano anche se in possesso di un titolo di studio secondario o terziario: il risulta è un ampio divario del tasso di occupazione giovanile rispetto alla media UE27. Nel 2023, il tasso di occupazione dei giovani laureati con età compresa tra 30 e 34 anni era pari all’84% e al 73% tra quelli con un titolo di studio secondario superiore, al di sotto rispettivamente di oltre 5 e di oltre 8 punti percentuali della media UE27. Considerando poi i 20-34enni non più inseriti in un percorso di istruzione e formazione che hanno conseguito il titolo di studio (secondario o terziario) da 1 a non più di 3 anni, la differenza con l’Europa è ancora più marcata: i tassi di occupazione per i neodiplomati e i neolaureati (rispettivamente 59,7% e 75,4%) sono inferiori al valore medio europeo di oltre 18 punti per i primi e di oltre 12 punti per i secondi.  

A ciò si aggiunge l’ulteriore questione dell’elevata quota di giovani laureati sovraistruiti, ossia coloro che pur disponendo di un titolo di studio alto non svolgono un’occupazione adeguata: evidente espressione del problema del mismatch, che fatica a conciliare il sistema di istruzione e formazione alle esigenze del mercato del lavoro. Tra i 25- 34enni laureati l’incidenza di sovraistruiti è pari al 35,9%, percentuale che sale al 38,1% tra le donne e al 51,4% tra gli stranieri. Alla crescita relativamente lenta delle opportunità professionali qualificate e al ristagno dei redditi reali è poi collegato il fenomeno dell’emigrazione dei giovani qualificati, che nell’ultimo decennio ha fatto registrare una perdita netta di circa 97mila laureati di età compresa tra 25 e 34 anni. Nel dettaglio, nel decennio 2014-2023, si è osservato un costante aumento dei giovani italiani che scelgono di stabilirsi all’estero, mentre sono stati decisamente più limitati i rientri in Italia. Oltre un milione di italiani ha scelto di trasferirsi all’estero e, tra questi, più di un terzo (367 mila) sono giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Tra i giovani espatriati, circa il 40% possedeva una laurea al momento della partenza. 

Non meno delicato, infine, il tema stipendi: se è vero, infatti, che il mercato del lavoro ha continuato a crescere negli ultimi anni toccando numeri record per il nostro Paese, lo è altrettanto che tale crescita è stata per lo più trainata da professioni a basso valore aggiunto e in settori dove le retribuzioni sono mediamente più basse. Un problema riconducibile, in primo luogo, alla stagnazione del PIL negli ultimi decenni, allo scarso aumento della produttività e al basso contributo dell’innovazione tecnologica, oltre che alla lentezza dei processi di rinnovo dei contratti collettivi. Nel 2024 le retribuzioni contrattuali orarie e quelle di fatto per unità di lavoro sono cresciute rispettivamente del 3,1% e del 2,9%, rispetto al +1,1% del tasso di inflazione (IPCA), consentendo un parziale recupero della perdita di potere di acquisto registrata nel biennio 2021-2022 dovuta all’impennata dei prezzi al consumo. Ciononostante, considerando il periodo intercorso tra gennaio 2019 e fine 2024, la crescita delle retribuzioni contrattuali è stata pari al 10,1% a fronte di un aumento dell’inflazione (IPCA) pari a 21,6%. Nel complesso, lo scorso anno i salari reali sono cresciuti in media del 2,3%, segnando un’inversione di tendenza rispetto al calo del 3,2% e del 3,3% nel 2023 e 2022, ancora non sufficiente però a ricucire il gap provocato dalla fiammata inflazionistica. 

Secondo i dati OCSE, infatti, l’Italia è tra i Paesi in cui la perdita di potere d’acquisto è stata più consistente nel post COVID: nel terzo trimestre del 2024 le retribuzioni italiane erano ancora del 7,4% più basse in termini reali rispetto al primo trimestre del 2021, davanti solo a Repubblica Ceca e Svezia e rispetto al -4,3% della Spagna, al -2,3% della Germania e al -2,1% della Francia. Non solo, il nostro è il Paese del G20 ad aver subito la perdita più marcata in termini di potere d’acquisto dal 2008, con un calo dell’8,7% dei salari reali.

Bruno Bernasconi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

16/6/2025

 
 
 

Ti potrebbe interessare anche