Salari, il convitato di pietra

Subito dopo la sicurezza, le retribuzioni sono senza dubbio un tema prioritario in materia di lavoro: un nodo da affrontare più con una vera riforma della contrattazione che con incentivi e leve fiscali, da usare con razionalità per non correre il peeriodo di sostituire strutturalmente i salari con il denaro pubblico

Marco Leonardi

Domani il governo incontrerà i sindacati per discutere – ufficialmente – di sicurezza sul lavoro, tema doveroso e urgente. È positivo che una parte del “tesoretto” dell’INAIL venga destinata a prevenzione e tutele. Ma accanto alla sicurezza c’è un convitato di pietra che nessuno può ignorare: i salari. 

Dopo anni di stagnazione, perdita di potere d’acquisto e aumenti troppo modesti, il tema salariale irromperà comunque sul tavolo. E il rischio è che le proposte oggi in campo peggiorino la situazione invece di migliorarla. La prima, targata Lega, rischia di essere un ritorno mascherato alla scala mobile: adeguamento automatico dei salari all’inflazione, senza negoziazione né legame con la produttività. Una misura che l’Italia ha già conosciuto e fortunatamente superato, perché alimentava la spirale prezzi-salari e irrigidiva il mercato del lavoro. 

La seconda proposta, avanzata da Forza Italia, appare più moderna ma ha effetti altrettanto distorsivi. Prevede l’esenzione fiscale e contributiva per gli aumenti contrattuali dei rinnovi nazionali, per tre anni. A prima vista sembra un premio alla contrattazione. In realtà è un passo verso una flat tax incrementale sul lavoro dipendente, che introduce surrettiziamente una logica regressiva nel sistema fiscale. Il meccanismo crea disuguaglianze: a parità di reddito, due lavoratori potrebbero pagare imposte molto diverse solo per il momento in cui ricevono l’aumento. E dopo 3 anni, il beneficio fiscale scompare? Semplicemente non può funzionare.  Si genererebbe un sistema opaco, instabile e potenzialmente incostituzionale: l’articolo 53 impone la progressività dell’imposizione, non il suo smantellamento pezzo dopo pezzo.

Purtroppo non è una proposta nuova. È già circolata molto spesso tra sindacati, imprese e governi: dal Conte II al governo Draghi. Sempre giustamente rifiutata, speriamo non venga riesumata oggi solo per mancanza di idee migliori. Per affrontare seriamente il nodo salariale servono riforme vere della contrattazione, non travestimenti della flat tax. La priorità è una legge sulla rappresentanza sindacale e datoriale, che stabilisca chi può contrattare e su quali perimetri. Oggi la contrattazione è frammentata, soprattutto nei servizi, e comunque non mantiene il potere d’acquisto in linea con l’inflazione. Ma ogni governo ha evitato di intervenire per non toccare l’autonomia autoreferenziale delle parti sociali. Poi ognuno ha i suoi sindacati “amici” e i relativi veti incrociati, ma la legge serve, i patti volontari tra le parti non hanno funzionato. 

Serve poi un salario minimo legale per chi non è effettivamente coperto dai contratti collettivi. È tempo di smettere di dire che i contratti nazionali coprono tutti: li coprono male, e solo formalmente. Nei settori a bassa sindacalizzazione e tra i lavoratori esternalizzati, circa il 6% del totale, le tutele salariali sono deboli o assenti. Oggi rischiamo perfino che i giudici si sostituiscano ai contratti nella determinazione dei minimi.

Altro nodo, il fiscal drag. L’inflazione ha eroso i salari reali anche perché gli scaglioni IRPEF non sono stati aggiornati. Serve una indicizzazione automatica, altrimenti gli aumenti nominali si trasformano in un aggravio fiscale che li azzera. Infine, c’è una realtà nota ma ignorata: nelle piccole imprese le retribuzioni reali divergono da quelle contrattuali. Si lavora più di quanto dichiarato, si prendono compensi superiori ai minimi ma spesso non tracciati. Gli strumenti per contrastare part-time fittizi e pagamenti irregolari esistono: bisogna usarli. Per riportare queste somme dentro la contrattazione legittima, si potrebbe estendere la soglia della detassazione dei premi di risultato per le piccole imprese sotto i 10 dipendenti, svincolandola da criteri troppo formali. E per le grandi, servirebbe abbassare le soglie per costituire le rappresentanze sindacali unitarie, così da facilitare la contrattazione di secondo livello. 

L’aiuto fiscale va usato con razionalità, non deve in nessun modo sostituire strutturalmente i salari con il denaro pubblico. Finché si continuerà a pensare che si possano alzare le retribuzioni con i soldi dello Stato, eludendo i nodi della contrattazione, della rappresentanza e della progressività, non si andrà da nessuna parte.

Prof. Marco Leonardi,
Componente Comitato Tecnico Scientifico Itinerari Previdenziali 

12/5/2025

 
 
 

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