Luci e ombre sul salario minimo legale

Nelle ultime settimane si è molto parlato della possibilità di introdurre anche in Italia un minimo salariale garantito che, se da un lato assicurerebbe retribuzioni più eque a quei lavoratori cui non non vengono applicati i minimi del CCNL, rischierebbe dall'altro di scardinare un sistema oggi fondato sulla tutela delle specificità proprie di ogni settore merceologico

Gabriele Fava

Torna in voga nel nostro Paese il dibattito concernente l’introduzione di un minimo salariale minimo garantito, attraverso la presentazione di due distinti Disegni di Legge. Il dibattito, inoltre, è maggiormente amplificato dalle recenti dichiarazioni del Ministro del Lavoro, il quale ha rilanciato la proposta dell’introduzione di un salario minimo europeo volto a contrastare i fenomeni di dumping salariale all’interno dell’Unione, e dalle parole del Segretario del Partito Democratico che si è detto favorevole all’applicazione automatica per legge a tutti i lavoratori dei minimi tabellari previsti dai Contratti collettivi nazionali firmati dalle sigle sindacali più rappresentative. 

Il cuore delle proposte all’esame del Parlamento è costituito dalla fissazione di un salario orario minimo, che, secondo le aspettative dei firmatari, dovrebbe contribuire alla lotta al fenomeno dei cosiddetti working poors ossia quei lavoratori i quali, pur lavorando, percepiscono un reddito inferiore alla soglia di povertà relativa. In realtà, la previsione di un salario minimo legale, qualora riuscisse effettivamente a garantire un aumento dei salari minimi, comporterebbe la necessità per le imprese di scaricare tale aumento di costi sul consumatore finale o, in ogni caso, la diminuzione dei margini di investimento, con danno al tessuto produttivo e ai livelli occupazionali. Tutt’al più, l’introduzione di un salario minimo legale potrebbe giovare a quei limitati settori nei quali non viene attualmente applicata la contrattazione collettiva o nei campi in cui si assiste al proliferare dei cosiddetti “contratti pirata”, ossia quei contratti collettivi siglati con organizzazioni sindacali scarsamente presenti nel territorio e con pochi aderenti. Il vero problema si sposta quindi dall’adozione di un salario minimo orario, alla previsione di un sistema di rappresentatività che prevenga l’utilizzo di contratti collettivi di comodo e, con essi, tabelle salariali inadeguate al costo della vita. Prima ancora di istituire il salario minimo orario, quindi, è attualmente necessario prevedere con urgenza un intervento strutturale in materia di rappresentanza sindacale nell’ottica di un ammodernamento delle relazioni industriali italiane.

Come sopra accennato, l’introduzione o meno nel nostro Paese di un salario minimo orario è stata negli ultimi anni oggetto di un forte dibattito pubblico, tanto che anche la Legge delega del cosiddetto Jobs Act prevedeva l’introduzione, anche in via sperimentale, di un compenso orario minimo; delega, peraltro, mai esercitata. Il dibattito negli anni susseguitosi fa leva anche sulla circostanza che tale misura è già presente nella legislazione di ben 22 Paesi membri su 28 dell’Unione Europea. I restanti sei - Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia - prevedono, invece, un sistema nel quale l’individuazione della paga-base minima è demandata alla contrattazione collettiva dei vari settori. L’importo del salario minimo riconosciuto per legge nei Paesi europei nei quali è attualmente previsto varia da un minimo di 235 euro mensili della Bulgaria ai 1.999 euro garantiti in Lussemburgo. Nei due sistemi continentali sicuramente a noi più affini, ossia Francia e Germania, la retribuzione minima oraria si attesta rispettivamente a 10,03  e 8,84 euro lordi all’ora.

Va precisato che in Italia, così come nei paesi contraddistinti da una forte presenza e centralità della contrattazione collettiva, i minimi salariali sono distinti per singolo settore merceologico e sono individuati dai CCNL. In aggiunta, pur in assenza nel nostro Paese di una validità erga omnes della contrattazione collettiva, la giurisprudenza è ormai costante nell’identificare nei minimi contrattuali di cui ai CCNL la “retribuzione proporzionata e sufficiente” di cui all’art. 36 della Costituzione, così comportando l’applicazione del minimo salariale indicato nel Contratto Collettivo nazionale maggiormente affine, anche a un rapporto di lavoro per il quale, formalmente, non troverebbe applicazione.

Per quanto attiene al merito dell’introduzione di un salario minimo orario di fonte legale, tale misuranon è in linea con l’attuale quadro normativo e giurisprudenziale. Come visto, infatti, in Italia i minimi tabellari sono stabiliti in base agli accordi sottoscritti dalle parti sociali, in un sistema che tiene conto delle particolarità proprie di ogni settore merceologico. In aggiunta a ciò, come sopra menzionato, per costante interpretazione a opera dei tribunali del lavoro, i minimi tabellari di cui ai CCNL sono utilizzati al fine di individuare la retribuzione sufficiente ex art. 36 della Costituzione, contribuendo a garantire, nei fatti, la realizzazione di un “salario minimo orario”. Inoltre, la fissazione di un salario minimo orario uguale per tutti i settori e applicabile a tutti i lavoratori subordinati può comportare problematiche connesse alla quantificazione dell’importo orario da erogarsi.

Per concludere, qualora l’obbiettivo dei provvedimenti in parola fosse quello di garantire retribuzioni più eque a quella fetta di lavoratori cui non vengono applicati i minimi dei CCNL (si pensi, ad esempio, ai lavoratori domestici), in luogo dell’imposizione ex lege di un trattamento retributivo minimo, si ritiene preferibile un intervento in materia di rappresentanza sindacale che ribadisca la centralità, nel nostro ordinamento, della contrattazione collettiva quale strumento di definizione dei minimi retributivi.

Gabriele Fava, Socio Fondatore e Presidente dello Studio legale Fava & Associati​​

6/5/2019

 
 
 

Ti potrebbe interessare anche