Sovraistruzione, un lusso che non ci possiamo permettere

L'Istat denuncia che i laureati italiani sono troppo qualificati per i lavori che si trovano a svolgere: un problema che nasce soprattutto dal sistema di istruzione, che investe tempo e risorse per formare profili inadatti al mercato del lavoro italiano

Giovanni Gazzoli

Un ragionamento serio sul futuro del Paese non può prescindere dal tema dell’educazione e, in particolare, da quello dell’istruzione. Nonostante riforme strutturali alternate da interventi di cosmesi, la formazione (professionale e non) dei giovani continua a essere un tasto dolente.

Nel Rapporto annuale 2019, l’Istat ha non a caso dedicato un intero paragrafo al particolare problema della sovraistruzione, definita come quella situazione che si verifica quando il titolo di studio posseduto dai lavoratori è superiore a quello richiesto per accedere o per svolgere una data professione.

Qualche numero aiuta a delineare la gravità della situazione. La base su cui si ragiona è composta da poco più di due milioni di persone tra i 20 e i 34 anni, tutte dotate di laurea. Escludendo la minoranza di coloro che sono ancora in istruzione (ad esempio, i dottorati di ricerca), risulta che solo il 73,7% è occupato: più di un laureato su 4 non trova lavoro se si ferma dopo la laurea. E va ancora peggio ai diplomati: quasi il 40% non è occupato. Non troppo rosea neppure la situazione degli occupati: quasi la metà dei laureati svolge una professione per la quale è troppo qualificato (più della metà in riferimento ai diplomati), e tale condizione si trascina nel tempo, considerando che la percentuale resta sopra il 40% anche 6 anni dopo il primo lavoro.

È, questo, un problema a due facce. Da un lato, quella dei giovani che sono costretti a svolgere professioni per le quali sono sovra-qualificati; dall’altro, quella delle aziende che, paradossalmente, non trovano forza lavoro qualificata in relazione alle proprie esigenze produttive (come evidenziano anche le rilevazioni Excelsior-Unioncamere). In mezzo ci sta il sistema-Italia, che subisce le conseguenze negative di un mancato ritorno sia economico sia sociale degli investimenti sostenuti: “fuga dei cervelli”, minore intraprendenza delle aziende a innovare, frustrazione sociale.

L’analisi dettagliata dei dati aiuta a identificare alcuni nodi focali. Il fatto che ci sia più mismatch (ossia la differenza tra le competenze necessarie a lavorare e quelle acquisite nel percorso di formazione scolastica e universitaria) tra i detentori di laurea magistrale rispetto a quelli con la laurea triennale spinge a interrogarsi circa la funzionalità e l’impostazione della specialistica (molti corsi, ad esempio, non offrono un reale approfondimento né teorico né pratico rispetto alla triennale). Inoltre, l’imbuto che segue le lauree a indirizzo socio-economico e giuridico (54% di mismatch, a fronte del 25% nell’area delle scienze della salute; per il dettaglio si rimanda alla figura 1) ricorda che l’orientamento post diploma dovrebbe aiutare ad allargare l’orizzonte rispetto a scelte prese in giovanissima età e spesso senza tenere conto di tutti i fattori possibili. O ancora, il mismatch sfiora il 60% per i laureati che trovano lavoro per via informale, ossia attraverso reti di amici e familiari: segnale che anche il processo di placement svolto dalle università potrebbe essere migliorato. E questi sono solo alcuni dei problemi che si potrebbero evidenziare.

Figura 1 | Laureati occupati di 20-34 anni non più in istruzione e interessati da mismatch per area disciplinare e tipo di laurea.
Anno 2018 (incidenze percentuali)

La figura 2 mostra invece i settori in cui è più probabile trovare un’occupazione che presenti un mismatch di competenze: in particolare, le rilevazioni “sconsigliano” i settori alberghiero/ristorazione, trasporti e attività finanziarie, effettivamente corrispondenti ai classici “lavoretti” che nell’immaginario collettivo simboleggiano le difficoltà dei giovani laureati a inserirsi nel mondo del lavoro. Al contrario, i settori migliori sono istruzione, sanità e immobiliare, dove c’è una bassa presenza di mismatch.

Figura 2 | Laureati occupati di 20-34 anni non più in istruzione interessati da mismatch, per settore di attività economica e dimensione di impresa.
Anno 2018 (composizioni percentuali dell’occupazione e incidenze percentuali di mismatch)

Insomma, i dati suggeriscono che il modello attuale ha molte lacune. È certamente sbagliato generalizzare, nonché affermare semplicisticamente che tutto sia da buttare. Tuttavia, la bontà di un sistema si valuta anche e soprattutto dal riscontro della realtà: sarebbe altrettanto sbagliato creare ad arte profili in base alle richieste del mercato del lavoro (Plutarco ci insegna che “la mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma piuttosto, come legna, di una scintilla che l'accenda”), ma lo è ancora di più non prendere atto del fatto che la situazione attuale è doppiamente dannosa. Restando al problema del mismatch, come rileva lo stesso Istituto, da una parte si hanno infatti “effetti negativi per gli individui in termini di ridotta remunerazione e minore soddisfazione lavorativa”, dall’altra, “per le istituzioni e più in generale la società, in termini di sottoutilizzo del potenziale economico del capitale umano”.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

23/7/2019

 
 

Ti potrebbe interessare anche