Gender gap, il divario retributivo di genere in Italia e le sue implicazioni pensionistiche

Benché il gap retributivo di genere sia in media più contenuto in Italia che nel resto d'Europa, la partecipazione femminile al mercato del lavoro è ancora troppo modesta per non analizzare anche gli effetti di carriere discontinue e bassi salari sulle pensioni (presenti e future) delle donne italiane

Elena Tavanti e Melania Turconi

Per le società contemporanee, e l’Italia in questo senso non fa eccezione, il gender pay gap è una questione di primaria importanza: secondo l'Eurostat, al 2022 il divario retributivo di genere in Europa si attestava al 12,7%. Se il gap salariale tra gli uomini e le donne italiane, pari al 5%, risulta inferiore rispetto alla media europea, il nostro Paese comunque non può sorridere guardando al tasso di occupazione femminile: a fine 2022 era infatti fermo al 55%, tra i più bassi in assoluto dell'Unione Europea, a fronte di una media del 69,3%. E il divario non risulta colmato neppure passando ai dati più recenti, che vedono l’Italia a quota 56,8% contro il 70,2% della media UE.

Le implicazioni di una partecipazione al mercato del lavoro ancora migliorabile (si pensi, ad esempio, anche al fenomeno piuttosto diffuso del part-time involontario) e della disparità retributiva si estendono però oltre il periodo della carriera professionale e rischiano di riflettersi pesantemente anche sulla sicurezza economica delle donne durante la vecchiaia, con potenziali limitazioni della loro capacità di spesa. 

Le donne italiane sono notoriamente più longeve: la speranza di vita alla nascita, secondo i dati Istat, è infatti di 80,5 anni per gli uomini e di 84,8 per gli individui di sesso femminile tanto che, non stupisce, come si legge nell’Undicesimo Rapporto pubblicato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, le pensionate rappresentano il 51,7% del totale. D’altra parte, tuttavia, i pensionati percepiscono il 56% dei redditi complessivi. Nel dettaglio, il reddito pensionistico - inteso come insieme di prestazioni previdenziali, assistenziali e indennitarie - della popolazione femminile è inferiore del 27% rispetto a quello maschile, con una cifra media che ammonta a 16.991 euro l’anno contro i 23.167 euro percepiti dagli uomini, benché le donne beneficino, in media, di più prestazioni: 1,5 a testa contro le 1,32 degli uomini.  Proprio la tipologia di prestazioni, su cui pesano carriere interrotte (anche per ragioni familiari e legati a oneri di cura), spesso discontinue e di riflesso nastri contributivi modesti rispetto a quelli degli uomini, aiuta però a motivare il gap, con le beneficiarie di sesso femminile che prevalgono ad esempio nel caso di trattamenti ai superstiti (circa l’85,7%) e di prestazioni prodotte da “contribuzione volontaria”, solitamente di importo modesto. Tutte ragioni per le quali spesso beneficiano di integrazioni al minimo (86,1%), maggiorazioni sociali (63,8%), importi aggiuntivi, quattordicesime mensilità e altre misure di matrice assistenziale a carico della fiscalità generale. 

E quanto alla previdenza complementare? Benché, in un simile scenario, proprio le donne potrebbero e dovrebbero legittimamente essere considerate tra le categorie maggiormente bisognose di coperture integrative, anche i dati sulle adesioni riflettono uno squilibrio a favore della platea maschile. Come emerge dalla Relazione COVIP per l’anno 2023, la popolazione femminile rappresenta solo il 38,3% del totale degli iscritti, dato che resta pressoché invariato dal 2018. Il gap resta piuttosto marcato per tutte le fasce di età, fatta eccezione per quella che raggruppa gli iscritti minori di 20 anni, formata in prevalenza da familiari fiscalmente a carico iscritti prima di entrare attivamente nel mercato del lavoro. Non a caso, dunque, la disparità risulta più evidente soprattutto tra le fila del lavoro dipendente e autonomo, mentre per quanto riguarda gli ‘’altri iscritti’’ le percentuali sono molto più omogenee. 

La bassa partecipazione delle donne al mondo della previdenza complementare sembra insomma essere, tra le possibili ragioni, innanzitutto una diretta conseguenza della loro minore e più incostante presenza tra le forze lavoro: sempre secondo i dati COVIP, le donne attive lavorativamente sono il 57,7% della popolazione (contro il 75,7% per gli uomini). Interessante allora guardare anche al tasso di partecipazione alla previdenza complementare rispetto alle forze di lavoro, aggregato che conta sia gli occupati sia le persone in cerca di occupazione con almeno 15 anni di età): ancora una volta gli uomini partecipano più delle donne - 40% contro 32,8% -  con una forbice costante intorno ai 6-7 punti percentuali per tutte le fasce di età, al netto dei minori (fenomeno appunto da interpretare come effetto delle decisioni della famiglia di appartenenza). 

Figura 1 – Iscritti totali alla previdenza complementare per genere, età e tipologia di forma 

Figura 2 – Iscritti totali alla previdenza complementare per genere, età e tipologia di forma

Fonte: Relazione COVIP per l’anno 2023

Passando all’analisi per tipologie di fondo, ciò che si evince dalla Relazione COVIP è una distribuzione più equilibrata nelle forme pensionistiche complementari di mercato: la componente femminile è del 42,6% nei fondi pensione aperti, mentre tocca quota 46,6% tra i cosiddetti “PIP nuovi”. Maggiori invece le differenze di genere tra i fondi negoziali, dove le donne rappresentano invece solo il 27,3% della platea di riferimento. Un divario che, considerata la natura contrattuale di queste forme pensionistiche, può essere almeno in parte considerato il riverbero di un mercato del lavoro che vede le donne essere meno presenti degli uomini, avere carriere poco costanti o essere comunque impiegate in mansioni e/o settori a basso salario (condizioni che potrebbero indurre a ritenere come superflui o non necessari i versamenti per la previdenza complementare). 

Tutte disparità che si traspongono, naturalmente, anche sugli accantonamenti effettivi e sulla capacità di formazione del risparmio previdenziale, generando una forbice tra i contributi medi degli uomini e delle donne che tende ampliarsi all’aumentare dell’età: si inizia con un contributo medio inferiore del 5% nella fascia 25-34 anni, per arrivare a un gap del 27% nella fascia dai 50 anni in su. Un problema non di poco conto visto che un’adeguata contribuzione è fondamentale per ottenere prestazioni altrettanto adeguate. Tra le forme, il divario tra i generi non risulta invece evidente per i fondi pensione negoziali, nei quali in media i contributi versati da uomini e donne si equivalgono: come sottolinea la COVIP, sul dato pesa tuttavia la concentrazione delle adesioni contrattuali nel settore edile, con un numero molto rilevante di lavoratori uomini e con versamenti contributivi di importo modesto.

Figura 2 – Contributo medio per genere e classi di età 

Figura 3 – Contributo medio per genere e classi di età

Fonte: Relazione COVIP per l’anno 2023

Posto dunque che esiste un pension gender gap ma premesso anche che questo fenomeno è più lo specchio di un mercato del lavoro ancora poco favorevole alla platea femminile che di storture proprio del sistema pensionistico (pubblico o complementare), come si stanno muovendo il legislatore nazionale ed europeo dinanzi a questi numeri? 

Le strategie sovranazionali e nazionali per raggiungere la parità di genere nel lavoro sono contenute nell’Agenda 2030, nella Strategia UE 2020-2025 e nella direttiva UE 2023/970 sulla parità retributiva, con l’Unione Europea che pone in particolare l’accento sul tema dell’istruzione e sulla necessità di una maggiore promozione delle lauree STEM tra le ragazze. I campi dell'ingegneria, della programmazione e del digitale sono ancora troppo poco scelti dalle giovani nei loro percorsi di formazione, pur rappresentando in effetti un'opportunità per entrare in settori lavorativi ad alto sviluppo e con salari in crescita. D’altro canto, lì dove l’Italia pare per il momento essersi concentrata soprattutto su misure di tipo monetario, come esoneri e sgravi contributivi per le assunzioni dedicate o l’innalzamento della soglia di defiscalizzazione a 3.000 euro per i soli dipendenti con figli a carico, occorrono però anche soluzioni di taglio più pratico volte a favorire la conciliazione vita-lavoro delle occupate e dei lavoratori in generale. Potenziare strumenti come lo smart working e gli orari flessibili, incrementando poi l’offerta dei servizi per l’infanzia, è essenziale per creare un contesto in cui genitorialità (soprattutto femminile) e carriera non siano in opposizione. In quest’ottica, ma la strada è ancora lunga, è stato ad esempio varato nel 2023 il "Codice di Autodisciplina di imprese responsabili in favore della maternità”, strumento di autodisciplina che mira a creare un clima culturale ed economico di collaborazione tra datore di lavoro e dipendenti rispetto al tema della maternità, affinché questa non debba rappresentare per le donne un desiderio alternativo alla carriera. 

Elena Tavanti e Melania Turconi, Itinerari Previdenziali

20/6/2024 

 
 
 

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