Natalità, occupazione femminile e work-life balance: c'è ancora tanto da fare

Per molte donne italiane la famiglia resta difficile da coniugare con la professione, difficoltà di cui non si può non tenere conto quando si discute di natalità. Ecco allora come servizi per l’infanzia e strumenti di conciliazione vita-lavoro potrebbero favorire al tempo stesso occupazione femminile e genitorialità

Mara Guarino

Negli ultimi mesi, stampa e tv stanno ponendo con maggiore costanza l’attenzione sulla transizione demografica che sta attraversando il nostro Paese, dove si vive sempre più a lungo (anche se non necessariamente in buona salute) ma nel quale le nascite sono in costante diminuzione, tanto che anche nel 2022 secondo Istat si sarebbe toccato un record negativo. 393mila le nascite registrate, con un calo dell’1,7% sull’anno precedente, proseguito anche in questo 2023: secondo i primi dati provvisori riferiti al semestre gennaio-giugno 2023, i nuovi nati in Italia sarebbero circa 3.500 in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Insomma, si fanno sempre meno figli (1,24 per donna nel 2022) e, complice anche il sempre più tardivo ingresso nel mercato del lavoro, si fanno in età sempre più avanzata, con l’età media al parto ormai stabile intorno ai 32,4 anni.

Tutte tendenze che, proprio perché combinate tra loro, obbligano – al netto di facili allarmismi su culle vuote e pensioni future non pagate – a riflettere su presente e futuro del nostro sistema di welfare: se, da un lato, il progressivo invecchiamento della popolazione porta con sé anche tante opportunità, come quelle della Silver Economy e più in generale legate al possibile ripensamento di un capitalismo ormai fin troppo sfrenato (a discapito della sostenibilità stessa del Pianeta); dall’altro, lo scivolamento verso le età senili degli italiani pone davanti ad alcune importanti criticità,come ad esempio la gestione della non autosufficienza in un Paese che finora poco o nulla ha fatto per prepararsi ad affrontare il nuovo corso della demografia.  

E se è vero che la demografia dei prossimi anni è già scritta (anche ammessa un’improvvisa e improbabile inversione di tendenza delle nascite, l’Italia sarebbe comunque ormai destinata ad affrontare il picco del suo invecchiamento intorno al 2045/2050), lo è altrettanto che qualche considerazione sulla natalità è comunque doverosa. Tanto più se si considera che i provvedimenti – almeno nelle intenzioni, e nelle dichiarazioni - a sostegno della genitorialità sono comunque stati in epoca recente all’ordine del giorno nell’agenda politica: dall’Assegno Unico Universale per i Figli all’innalzamento della soglia di defiscalizzazione dei fringe benefit a 3.000 euro per i lavoratori dipendenti con figli a carico, passando per la decontribuzione a favore delle lavoratrici madri con almeno 2 figli prevista dal disegno di Legge di Bilancio per il 2024.Misure in alcuni casi molto recenti e per una cui valutazione accurata occorrerà del tempo ma che già dicono molto del tipo di strada intrapresa anche dall’ultimo esecutivo per favorire le nascite: preponderante, infatti, rispetto all’efficientamento dell’offerta di servizi l’erogazione di risorse e strumenti monetari.  

 

Il difficile work-life balance delle donne italiane: dimissioni e oneri di cura 

Pur non esaustivo dell’intera questione, che difficilmente può essere esaurita analizzando solo una delle numerose sfumature che la caratterizza (molteplici in verità i fattori culturali e sociali che si intrecciano con quelli di natura economica sulla scelta individuale di avere o meno figli), uno dei nodi centrali per le famiglie, e in particolare, per le donne italiane è senza ombra di dubbio quello della conciliazione tra attività professionale e vita familiare. 

Un tema - va detto - che di per sé non dovrebbe conoscere genere ma che, anche per retaggi storici, si tinge inevitabilmente di “rosa” quando si guarda ai numeri: secondo i dati recentemente diffusi dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nel 2022 le dimissioni volontarie presentate nei primi 3 anni di vita del figlio sono state ben 61.391, con un aumento del 17,1% rispetto al 2021. Di queste ben il 72,8% ha riguardato donne, con il 63% delle neomamme che cita tra le ragioni proprio la difficoltà di coniugare gli oneri di cura con il mantenimento del proprio impiego; motivazione invece minoritaria per gli uomini (7,1%). E se secondo l’Istituto neppure la qualifica professionale costituisce un deterrente, a riprova di una questione che va oltre le sole disponibilità finanziarie, risulta molto significativo il fatto che il maggior numero di provvedimenti si riferisce a lavoratori/lavoratrici con 1 solo figlio o in attesa del primo figlio, il 58% del totale: quella immediatamente successiva alla prima genitorialità sarebbe insomma la fascia più critica per restare nel mercato del lavoro, soprattutto per il sesso femminile, che talvolta lamenta anche un clima aziendale non conciliante verso la maternità. 

Al di là della necessità di catalogazione, appare evidente come tutte queste ragioni siano in verità interconnesse tra loro, in una sorta di circolo - molto poco - virtuoso. Il fatto che il mancato ingresso al nido sia la motivazione meno citata, e con valori quasi residuali, non può permettere alcun sospiro di sollievo, come dimostra il fatto che la rete familiare sia tuttora considerata determinante nella cura dei più piccoli, creando peraltro una forte dipendenza delle famiglie più giovani da quelle di provenienza o, in alternativa, da baby-sitter e altri servizi di assistenza al neonato che spesso si rendono necessari proprio per garantire continuità alla propria professione, in alternativa o in aggiunta al nido. Tutti costi poi, per forza di cose, solo parzialmente attenutati dalle misure monetarie a sostegno della genitorialità oggi previste dal sistema di protezione sociale italiano.

 

Potenziare  i numeri dell'occupazione femminile italiana 

Chiaro come allora la leva economica, peraltro spesso attuata attraverso provvedimenti di natura transitoria e non strutturale, che quindi rischiano di aggravare i conti delle finanze pubbliche senza neppure avere il tempo di sortire effetti concreti, non possa (quantomeno da sola) considerarsi sufficiente. Ancora di più se si tiene conto di ambiti invece a ora trascurati, come ad esempio il potenziamento nell’offerta degli asili nido che pur lo stesso PNRR prevedrebbe. Al 2021/2022, ultimo anno disponibile, l’offerta resta sostanzialmente stabile rispetto alle rilevazioni Istat precedenti ma ancora distante dagli obiettivi fissati dall’Europa: la percentuale di copertura dei posti rispetto ai residenti tra 0 e 2 anni è pari al 28%, quindi ancora inferiore al target del 33% fissato addirittura per il 2010 dal Consiglio Europeo nel Barcellona nel 2002; ancora più distante quindi il nuovo obiettivo europeo del 45% di bambini frequentanti servizi educativa di qualità entro il 2030. Pesanti poi i divari territoriali, con il Nord in verità al di sopra del 30% ma “penalizzato” nella media nazionale da un Sud fermo al 16%. 

Eppure, proprio i dati sull’occupazione – più bassi nel Mezzogiorno o, ancora, più elevati in Europa proprio lì dove i servizi  per l’infanzia sono più strutturati – sembrerebbero sottolineare l’esistenza di una relazione tra la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e l’estensione dei servizi per la prima infanzia. Che, come smart working, orari flessibili o agevolati (da non confondere con i fenomeni di part-time involontario), non sono possono essere visti come la panacea di tutti i mali ma restano strumenti indubbiamente essenziali per creare un contesto socio-economico nel quale le famiglie non debbano vivere la scelta della genitorialità come oppositiva a quella di avere un impiego o costruirsi una carriera. Del resto, anche i numeri che descrivono il nostro mercato del lavoro parlano chiaro. L’occupazione femminile continua sì a macinare record, ma perché parte da molto lontano, toccando ad esempio quota 52,5% solo alla fine del terzo trimestre 2023: percentuale che colloca la performance italiana tra le peggiori dell’UE, lontana di circa 13 punti dalla media europea.

 Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

19/12/2023

 
 
 

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