I veri conti (e le criticità) della previdenza italiana

I punti critici del nostro welfare state analizzati dal Professor Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e curatore del Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano

Alberto Brambilla

La sostenibilità del sistema previdenziale italiano, con particolare riferimento alle pensioni, non può prescindere dalla sostenibilità del sistema Italia, a sua volta condizionata dal debito pubblico e dal suo rapporto con la ricchezza annuale prodotta. 

Ebbene, il Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano - presentato alla Camera dei Deputati il 18 gennaio - parte dal ricordare l’evoluzione del debito: a fine 2019, prima della pandemia, era pari a 2.409,9 miliardi (134,7% del PIL) rispetto ai 1.632 (102% del PIL) del 2008. In soli 11 anni, nonostante l’austerity della  “matrigna” Europa (così la definirono tutti i partiti e le parti sociali), sono stati accumulati ben 777 miliardi di nuovo debito, con un incremento sul 2008 del 47%: COVID-19, reddito di cittadinanza, superbonus, Quota 100, salvaguardie pensionistiche del triennio Conte (2018/20), hanno portato il debito a fine 2020 a 2.573,5 miliardi (+163,6 miliardi e 157% del PIL). A fine 2021, pur a fronte di una crescita del PIL del 7,2% e un aumento dell’occupazione di +550mila, il debito raggiunge i 2.678,4 miliardi di euro con un incremento di circa 104,9 miliardi in 12 mesi, (150,8% del PIL). A fine 2022 saremo a 2.775 (altri 96 miliardi) nonostante il Governo Draghi entrato in carica nel febbraio 2021 e nel 2023 con un deficit del 4,5% ne accumuleremo altri 85 anche se il rapporto debito/PIL, grazie alla svalutazione prodotta dall’inflazione e pagata da tutti i risparmiatori e pensionati, si ridurrà al 145% (la media UE 2022 è al 94%). 

In questo contesto il Rapporto evidenzia una seconda debolezza: il rapporto attivi/pensionati, fondamentale per la sostenibilità di un sistema a ripartizione come quello italiano. Malgrado la ripresa del 2021, oggi abbiamo 1,41 lavoratori attivi che versano i contributi ogni pensionato, con il Nord che arriva a 1,6 e il Centro e Sud sotto 1,2. Rapporto che rimarrà così, in assenza di vere politiche industriali, anche nel biennio 2022-23. La terza debolezza di sistema è rinvenibile nella “gara” che tutti i partiti, incitati anche dai sindacati, hanno messo in campo per ridurre le età di pensionamento. Si è inventato di tutto: APE sociale, lavori gravosi (di cui non esiste traccia nella letteratura medico-scientifica), precoci, accesso ai fondi esubero con anche 7 anni di anticipo rispetto ai requisiti pensionistici, Opzione Donna, salvaguardie, Quota 100 poi 103 e così via, aumentando così il numero di pensionati. Pensionati aumentati rispetto al 2018 (l’anno del minor numero di pensionati da oltre 25 anni) di oltre 90mila unità, peraltro sempre più giovani dato che l’età media delle cosiddette uscite anticipate, è scesa a 61 anni e 8 mesi per i maschi e 61,3 per le femmine; per i prepensionamenti e le invalidità, le età scendono rispettivamente a 59,7 e 55,2 per i maschi e 58 e 54,2 per le donne. Il basso numero di occupati, l’aumento del numero dei pensionati e le eccessive decontribuzioni hanno prodotto un deficit tra entrate e uscite di 30 miliardi, meno dei 39 dell’anno pandemico ma 10 in più rispetto al 2019; e il ripianamento sarà a carico dello Stato e dei pochi contribuenti che pagano le tasse (meno del 40% degli italiani). 

Il giudizio del Rapporto rispetto alla decontribuzione, cioè alle norme che consentono di non versare tutti o parte dei contributi pensionistici per alleggerire il costo del lavoro, ponendoli a carico dello Stato – e, quindi, di tutti noi che oltre alle tasse e contributi nostri dobbiamo finanziare pure le imprese, è fortemente negativo per due ragioni: la principale è che nonostante tutte le decontribuzioni concesse l’Italia non solo non ha aumentato il numero dei lavoratori attivi ma, nel giugno del 2022, è passata all’ultimo posto della classifica Eurostat per tasso di occupazione, battuta persino dalla Grecia, Cipro, Malta, Romania e così via. Per arrivare alla media europea (oltre il 70%) all’Italia, con un misero 60,3%, mancano oltre 4 milioni di lavoratori; molti di più per raggiungere Germania, Danimarca e nord Europa, che superano il 75%, e l’Olanda con un 81,9%; la seconda ragione è che la decontribuzione costa ogni anno allo Stato oltre 23 miliardi, che devono essere ripianati versandoli con legge di bilancio all’INPS. Se si sommano queste cifre con gli 8,4 miliardi di costi del reddito di cittadinanza, ecco fatto il deficit INPS. 

Molto spesso politica, sindacati e media affermano che le pensioni in Italia sono basse: non è così perché le pensioni, ovviamente come anche i meno ferrati in economia possono capire, sono legate ai redditi e se questi sono bassi non è che le pensioni, per miracolo, possano essere alte. Come evidenziato nel Rapporto, per i lavoratori dipendenti pubblici e privati e per i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, imprenditori agricoli e altri), la pensione media è pari rispettivamente a circa il 70% e 60% del reddito medio dichiarato ai fini fiscali, il che rappresenta un ottimo tasso di sostituzione, tra i più elevati della UE. Il Rapporto evidenzia poi l’elevato livello della spesa sociale sul PIL e sulla spesa totale nel 2021. A fronte di una spesa pubblica totale di 985,961 miliardi (rispetto ai 944,420 miliardi. del 2020 e gli 871 del 2019), le entrate complessive sono state pari a 857,634 miliardi, di poco superiori a quelle del 2019 per un disavanzo enorme, pari a 128,327 miliardi, che si sommano ai precedenti; la spesa per la protezione sociale (pensioni, sanità e assistenza) nel 2021 è ammontata a 517.75 miliardi, rispetto ai 510,258 miliardi del 2020 (488,336 mld nel 2019): il 52,51% della spesa totale italiana.

Il dato smentisce quanto spesso si afferma, e cioè che in Italia si spende poco per il welfare rispetto ai Paesi UE. In realtà l’incidenza percentuale della spesa per welfare sul PIL colloca l’Italia, per il 2020, al secondo posto con l’Austria (33,3%), dopo la Francia (35,2%): ciò significa essere nella top five mondiale nonostante il nostro Paese abbia un enorme debito pubblico. Inoltre, tra i grandi Paesi, siamo al secondo posto dopo la Germania per spesa sociale in percentuale della spesa pubblica totale. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

18/1/2023

 
 

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