In pensione da una vita: quasi 400mila prestazioni pagate da oltre 40 anni

Secondo il Decimo Rapporto Itinerari Previdenziali, sono 399.686 gli assegni previdenziali pagati dall'INPS da 41 anni o più a persone andate in pensione nel lontano 1980 o ancora prima: gli errori da non ripetere per favorire la stabilità del sistema

Mara Guarino

All’1 gennaio 2022 risultavano in pagamento presso l’INPS ben 399.686 prestazioni pensionistiche - comprese quelle ex INPDAP relative ai dipendenti pubblici - liquidate da 41 anni o piùe quindi erogate a persone andate in pensione nel 1980, o anche prima. Nel dettaglio, si tratta di 353.779 prestazioni del settore privato, fruite da lavoratori dipendenti o autonomi (artigiani, commercianti e agricoli), di cui 288.563 donne (l’81,6%) e 65.216 (il 18,4%) uomini, e di 45.907 pensioni fruite da dipendenti pubblici, di cui 31.858 (il 69,4%) donne e 14.049 (il 30,6%) uomini, rappresentative dell’1,5% del totale delle pensioni IVS della gestione INPS-settore pubblico. Lo scorso anno le prestazioni di durata ultraquarantennale erano nel complesso 476.283: 423.009 nel solo comparto privato, con un decremento rispetto all’1 gennaio 2021 del 16,4%, pari a 69.230 prestazioni eliminate, e in buona parte tristemente imputabile al decesso del percettore. 

Se si considera che prestazioni corrette sotto il profilo attuariale dovrebbero essere correlate alla durata della vita contributiva attiva, che in media in Italia è di circa 20 anni per le pensioni di vecchiaia e di 35 anni per le anticipate, quelle evidenziate dal Decimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale Itinerari Previdenziali, sono cifre destinate a far riflettere su una delle principali criticità del nostro sistema, vale a dire l’elevato numero di “deroghe” concesse nel tempo all’età legale di pensionamento. Attraverso l’esame in serie storica delle pensioni ancora in vigore all’1 gennaio 2022, a partire da quelle decorrenti dal 1980 (o anni precedenti), il documento - formulato tenendo conto delle età medie rilevate dagli Osservatori Statistici dell’INPS – consente infatti di ricavare importanti indicatori sull’evoluzione della normativa italiana in ambito pensionistico e sugli effetti prodotti dalle diverse leggi in materia sulla spesa pubblica del Paese

Con il chiaro intento di evidenziare errori da non ripetere nonostante alcune recenti e pericolose tentazioni. «Se con la riforma Monti-Fornero si è poi passati a un’eccessiva rigidità, è altrettanto vero che tra il 1965 e il 1990 si è persa la correlazione tra contributi e prestazioni, adottando requisiti di eccessivo favore», spiega Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel ricordare che queste anomalie appesantiscono tuttora  il bilancio del nostro welfare. «Affinché il sistema resti in equilibrio, è essenziale  - puntualizza il Professore - un giusto rapporto tra periodi di vita lavorativa (e dunque anche di contribuzione) e durata del trattamento pensionistico, così da evitare decorrenze eccessive che penalizzino tutti quei lavoratori che accedono al pensionamento a età regolari e, ancora di più, le giovani generazioni». 

Basti pensare, come rileva il Rapporto, che nel settore privato l’età media alla decorrenza dei pensionati che percepiscono la rendita da 41 anni e più, ancora viventi, è di 40,9 anni (38,6 anni gli uomini e 41,4 le donne): quadro sul quale in verità pesano molto età giovanili delle pensioni di invalidità e di quelle ai superstiti. Nella pubblica amministrazionel’età media è di 40,5 anni (38,8 per gli uomini e 41,4 per le donne 38,0 e 41,6). Giusto per fare un confronto, le età medie dei lavoratori andati in pensione nel 2021 erano rispettivamente di 61,8 per l’anzianità, 67,4 per la vecchiaia, 60,8 per i prepensionamenti, 55,1 per le invalidità e 77,3 per le prestazioni ai superstiti degli uomini del settore privato e di 61,3 (anzianità), 67,3 (vecchiaia), 58,6 (prepensionamenti), 53,9 (invalidità) e 74,2 (superstiti) con riferimento alle donne. «Anche volendo considerare l’elevata aspettativa di vita del nostro Paese, siamo evidentemente ben oltre quel paletto dei 20/25 anni che dovrebbe rappresentare una buona mediazione tra periodo di lavoro e tempo di quiescenza: anzi, a oggi – aggiunge Brambilla – sono in pagamento tra pubblici e privati 5.668.713 prestazioni IVS che hanno già superato una durata di 20 anni (classi di durata dai 20 ai 41 anni e più, vale a dire il 33,6%, ossia un terzo delle prestazioni IVS vigenti».

Tra le categorie più longeve le donne, che fanno la parte del leone con l’80,2% del totale di prestazioni IVS in pagamento nel settore pubblico o privato con durate da 41 e più anni e con il 59,2% sul totale per genere di quelle ancora vigenti dopo oltre 20 anni, ma anche pensioni di invalidità e superstiti che figurano invece tra le tipologie di prestazioni prevalenti. Da rimarcare poi che, al gennaio 2022, nel settore privato, risultavano ancora in essere oltre 197mila pensioni dovute a prepensionamenti avvenuti con 8-10 anni di anticipo rispetto ai requisiti vigenti al momento dell’uscita dal mercato del lavoro: numeri che, con uno sguardo rivolto anche a eventuali proposte future, evidenziano gli effetti dell’uso intensivo dei prepensionamenti fatto sino al 2002. Prepensionamenti che in Italia, a differenza di quanto accade in altri Paesi Europei, pesano sul bilancio pensionistico anziché essere considerati delle vere e proprie misure di “sostegno al reddito”. 

Analoga la situazione delle invalidità previdenziali (assegno di invalidità, pensione di invalidità, pensione di inabilità): all’1 gennaio 2022 ne risultavano in pagamento da 41 anni e più 166.426, pari al 21,3% del totale delle invalidità. Le pensioni ai superstiti liquidate dall’INPS, dipendenti pubblici compresi, sono invece 4.249.339, di cui 162.313 con durata più che quarantennale (il 3,8%) e 819.182 con decorrenze superiori ai 20 anni (il 19,2% del totale superstiti). «Un tempo prepensionamenti e trattamenti di invalidità venivano utilizzati, come oggi si rischiano di impiegare le varie “Quote”, APE sociale o lavori gravosi (di cui non vi è traccia nella letteratura medico-scientifica), più come ammortizzatori sociali “mascherati” che come autentiche misure di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, di cui pure l’Italia avrebbe bisogno», spiega Brambilla, precisando che le ultime riforme hanno se non altro avuto il chiaro pregio di riportare il sistema verso un maggior equilibrio. 

Equilibrio che però le continue riduzioni delle età di pensionamento a favore ora di questa ora di quella categoria di lavoratori rischiano di compromettere. «Spesso gli italiani si lamentano perché l’età pensionabile è (in alcuni casi anche molto nettamente) più elevata che in passato. I motivi però ci sono – chiude il Professor Brambilla – e sono essenzialmente due: viviamo di più, ed è una bella notizia, e dobbiamo rispettare il patto intergenerazionale per garantire la tenuta della previdenza italiana, con un occhio di riguardo per i giovani con i cui contributi vengono pagate pensioni e anticipazioni. Senza adeguamento alla speranza di vita, i rischi sono proprio quelli che emergono analizzando questa vasta schiera di prestazioni ancora in pagamento, seppur erogate molti anni fa: lavoratori mandati in quiescenza a età troppo giovani, baby pensioni come quelle del pubblico impiego, casi “limite” di prepensionamento, requisiti troppo permessivi per ottenere prestazioni di invalidità e inabilità. Un monito per i fautori delle troppe anticipazioni». 

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

15/2/2023

 
 

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