La brutta sentenza della Corte Costituzionale

Una recente pronuncia ha giudicato legittimo il meccanismo di rivalutazione delle pensioni previsto dalla Legge di Bilancio per il 2023. Non è la prima volta che la Consulta si esprime a favore del "raffreddamento" verso gli assegni di importo più elevato e proprio questo, insieme a storture di natura tecnica, fa riflettere: in precedenza, la Corte stessa raccomandava infatti che il "taglio" fosse di breve durata, proporzionato e non ripetitivo

Alberto Brambilla

Sulla riduzione drastica della rivalutazione delle pensioni oltre 4 volte il trattamento minimo (2.271 euro lordi al mese, 1.500 euro netti circa) imposta dal Governo Meloni-Giorgetti per il 2023/24, a seguito dei molti ricorsi dei pensionati, la Corte Costituzionale si è espressa con la sentenza n. 19 del 2025 dichiarando legittimo il meccanismo di raffreddamento della rivalutazione per fasce di reddito (la rivalutazione non è per scaglione ma riguarda l’intero importo della pensione), previsto dalla Legge di Bilancio 2023, e non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’art. 1, comma 309, della Legge di Bilancio n. 197 del dicembre 2022. Esattamente come aveva fatto con la sentenza n. 234 del 9/11/2020 concernente il prelievo sulle pensioni più alte e la mancata indicizzazione promossa dal governo Conte-Salvini (per pagare il reddito di cittadinanza e Quota 100 che costarono una enormità), e come già accaduto con la sentenza n. 116 del 2013 sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 483, 486, 487 e 590 della Legge di Stabilità n.147 del 27/12/2013 che prevedeva, per il triennio 2014-2016, un contributo di solidarietà» del 6% sugli importi lordi annui da 14 a 20 volte il trattamento minimo INPS annuo (TM), del 12% da 20 a 30 e del  18% sugli importi superiori a 30 volte il TM (poco meno di 50mila poveri vecchietti). 

Quindi, in poco più di 4 anni, la Corte ha fatto il bis e il tris in poco più di 11 anni. E pensare che nella sentenza del 2013 e nelle precedenti, la Corte stessa raccomandava che il taglio delle pensioni alte fosse di breve durata, ragionevole e proporzionato e non ripetitivo. Con la sentenza n.19 del 2025, la Corte ha scritto per la terza volta una “pagina” poco costituzionale contro i pensionati con pensioni oltre 4 volte il minimo, dando per l’ennesima volta ragione al governo di turno, in spregio a qualsiasi ragione tecnica, normativa e di equità. Eppure, noi tutti consideriamo la Corte un importante contrappeso rispetto alla claudicante politica, ma purtroppo non è così. 

Se si rilegge la sentenza del 2020 sulle cosiddette “pensioni d’oro” di Di Maio e Conte, emerge un grave vulnus sia alla certezza del diritto sia all’uguaglianza tra i vari soggetti nei confronti della legge, accreditando per giunta una falsa comunicazione sociale del governo giallo-verde. Nell’esame di legittimità costituzionale sollevato da diversi tribunali e dalle  sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti per il Friuli-Venezia Giulia, il Lazio, la Sardegna e la Toscana, sia per la riduzione della rivalutazione all’inflazione per il triennio 2019-2021 delle pensioni superiori a 5 volte il minimo sia per la decurtazione percentuale per 5 anni delle pensioni superiori a 100mila euro lordi annui, il cosiddetto “contributo di solidarietà”, la Corte ha ritenuto legittimo il raffreddamento della perequazione (così lo chiama) in quanto ragionevole e proporzionato; legittimo pure il “contributo di solidarietà” anche se ne ridusse la vigenza a 3 anni, fino a tutto il 2021, ma solo per motivi burocratici (il piano del governo è triennale). 

Nella sentenza del 2025, la Corte va addirittura oltre, demolendo il concetto di divieto di retroattività e di certezza delle prestazioni, affermando che il taglio alla rivalutazione non è considerato un prelievo forzoso, ma una misura economico-previdenziale che l’esecutivo può discrezionalmente decidere di mettere in campo, con il fine di favorire le pensioni più basse e al contempo portare avanti una progressiva riduzione del debito pubblico. Ma se ogni governo, in modo discrezionale, può fare nuovo debito e cambiare le regole del gioco, perché mai i giovani dovrebbero fidarsi e pagare enormi contributi per 30/40 anni per vedersi poi magari ridurre le pensioni del 50% perché l’esecutivo di turno non ha più soldi? I tagli maggiori riguardano le pensioni oltre 8 volte il TM (5.493 euro lordi mese che, netti, diventano 3.350 circa) e i penalizzati, su 16,2 milioni di pensionati, sono solo 400mila: certo non nababbi ma persone con più di 70 o 80 anni, magari poco autosufficienti. Non c’è nulla di ragionevole né di proporzionale e tanto meno di non ripetitivo nel decurtare le pensioni a pochissimi soggetti che hanno lavorato 40 anni, mentre quelli che hanno ottenuto oltre il 100% della rivalutazione sono per la stragrande maggioranza persone che nella vita sono state a carico della collettività e che non hanno mai pagato né tasse né contributi; e non parliamo di pochi, perché sono quasi la metà dei 16,2 milioni di pensionati italiani. Insomma, la Corte ha dato ragione ai Bertinotti di turno: i soldi si prendono dove ci sono, punto! E se domani, avendo voi 2 o 3 case, ve ne sequestrassero una, secondo la Corte, potreste vivere bene anche con solo 1 o 2 case; se vi mettessero una patrimoniale del 10%, come sostiene la Landini company, non vi dovreste lamentare perché potreste mangiare lo stesso. Lo stupore aumenta soprattutto leggendo le precedenti sentenze della Corte che aveva sì avallato misure simili ma affermando categoricamente che dovevano essere di durata limitata nel tempo e non ripetitive. 

Per memoria si ricorda che: 1) le mancate rivalutazioni iniziano con il governo Prodi che, nel 1997, azzera fino alla fine della legislatura (governi D’Alema e Amato) l’adeguamento delle pensioni di importo superiore a 5 volte il minimo. Si ritorna alla normalità nel periodo 2001/2006 (governi Berlusconi) ma già nel 2008 la rivalutazione delle pensioni sopra 8 volte il TM viene azzerata, ancora dal governo Prodi; con il governo Berlusconi e fino al 2011 i pensionati ricevono la loro regolare rivalutazione sulla base della legge 388/2000 (100% per importi fino a 4 volte il TM; 90% da 4 a 5 volte il TM e 75% oltre), poi le cose precipitano con i successivi governi Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2 che le decurtano brutalmente. Per la Suprema Corte non basta come ripetitività? Si pensi che chi nel 2006 prendeva 3mila euro lordi (2.100 netti), ha perso tra il 2008 e il 2020 quasi 30mila euro, cioè ben due terzi di una annualità di pensione. Con 4mila euro lordi al mese (2.800 netti) ha perso poco meno di un intero anno di pensione: 48.769 euro su 52mila euro annui. 2) Un pensionato con una rendita oltre 8 volte il TM, con il mancato adeguamento di Giorgetti, ha perso oltre il 10% del potere d’acquisto e la misura è permanente perché non la recupererà più e, nei prossimi 10 anni, con un’inflazione al 2%, perderà un altro 4%. 3) Come fece nel 2020, quando avallò una falsa comunicazione sociale del governo sul ricalcolo delle pensioni al fine di correlarle ai contributi versati “tagliando gli ingiusti privilegi dei pensionati d’oro” (così disse Conte ai 35.600 poveri vecchietti “taglieggiati”), oggi la Corte avalla la falsa comunicazione sulle pensioni basse e sul debito. 4) La Corte, dal punto di vista tecnico, non ha neppure preso in considerazione che una parte consistente delle pensioni è calcolata a contributivo e non può quindi essere rivalutata meno del 100%, e che molte prestazioni sono frutto di ricongiunzioni onerose, contribuzioni volontarie o riscatti di laurea. 

Errori tecnici ed etici che minano la fiducia nella certezza del diritto: un bel guaio per l’Italia!

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

25/3/2025

L'articolo è stato pubblicato sul Corriere della Sera L'Economia del 17/3/2025
 
 
 

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