Se la longevità non basta: l'Italia alla sfida della "buona salute"

Vivere più a lungo non significa necessariamente farlo in buona salute, come dimostrano le evidenze statistiche che vogliono gli italiani trascorrere gli ultimi anni della propria vita con il serio rischio di multi-cronicità o forti limitazioni nel proprio quotidiano. Tra le leve su cui puntare per colmare il gap, spicca la prevenzione

Mara Guarino

Nel 2024 l’Italia ha ulteriormente ritoccato la propria speranza di vita alla nascita, toccando il massimo storico: 81,4 anni per gli uomini e 85,5 per le donne. Valori che la confermano come uno dei Paesi più longevi d’Europa, dove con una media di 84,1 anni per entrambi i sessi si colloca al primo posto alla pari con la Svezia, e oltre 2 anni al di sopra del dato UE27. 

E se, trascurando in questa sede gli (eccessivi) allarmismi relativi a tenuta di occupazione e welfare, la conquistata longevità della popolazione italiana è senza dubbio una buona notizial’ultimo Rapporto Istat sul benessere equo e solidale mette in luce il persistere di alcune criticità, a cominciare dai divari territoriali che attraversano il Belpaese. L’Istituto, del resto, rileva che tra la zona d’Italia più longeva – la provincia autonoma di Trento (84,7 anni) - e quella con la speranza di vita più bassa – la regione Campania (81,7)- c’è una forbice di ben 3 anni in termini di speranza di vita alla nascita. Con un ulteriore aggravante: il gap non sembra colmarsi nel tempo, tanto che mentre tutte le regioni del Nord hanno ad esempio già recuperato, e in molti casi superato, i livelli pre-pandemici del 2019, ciò non accade per diverse regioni del Mezzogiorno, quali Molise, Sardegna, Puglia e Calabria. 

Altro punto di riflessione riguarda poi la qualità della “vita longeva”: è purtroppo un fatto ormai consolidato che in Italia si viva sì a lungo, ma non sempre in buona salute. Al 2024 gli anni di vita attesi in buone condizioni di salute sono 58,1, valore inferiore non solo al 2023 (59,1) ma anche a quello pre-pandemico (58,6 anni). Un dato interessante ma influenzato dalla componente – soggettiva – della salute percepita, in peggioramento all’ultima rilevazione Istat. Le persone che si dichiarano in buona salute corrispondono infatti al 67,1%, vale a dire l’1,6% in meno rispetto al 2023. E se anche qui pesano a sfavore del Mezzogiorno forti divari territoriali, con la Calabria che ha un’aspettativa di 53,4 anni vissuti in buona salute contro i 69,7 della provincia di Bolzano, desta qualche preoccupazione anche il gap di genere. Pur avendo una maggior speranza di vita attesa alla nascita, le donne nel 2024 hanno davanti a loro 56,6 anni da vivere in buona salute; valore più basso dell’ultimo decennio e nettamente inferiore a quello registrato per gli uomini, per i quali la vita in buona salute ammonta a 59,8 anni. Anche in questo caso, va comunque peggio del 2023, quando lo stesso parametro toccava quota 60,5 anni. 


Ma cosa significa esattamente vivere in buona salute, soprattutto dopo una certa età? 

Per fare chiarezza torna utile la definizione di alcuni concetti base in ambito demografico: se la speranza di vita esprime il numero medio di anni che una persona nata in un certo anno di calendario può aspettarsi di vivere, la speranza di vita in buona salute esprime il numero di anni che quella persona può aspettarsi di vivere in buone condizioni di salute, utilizzando la prevalenza di individui che rispondono positivamente (“bene” o “molto bene”) alla domanda sulla salute percepita

Vien da sé che, come precisa la stessa Istat, siamo appunto dinanzi a una percezione che, in quanto tale, risulta a propria volta influenzata da un insieme complessi di fattori, ambientali, culturali, socio-economici e anagrafici (con lo stesso avanzare dell’età tende tipicamente a diminuire la percezione di essere in buona salute). Tutte ragioni per cui diventa essenziale, per farsi un quadro più completo, guardare anche ad altri valori statistici, come la speranza di vita senza limitazioni a 65 anni, la quale esprime invece il numero medio di anni che un 65enne può aspettarsi di vivere senza subire limitazioni (considerate tali se impattano per un periodo di tempo superiore ai 6 mesi) nello svolgimento delle proprie attività quotidiane.

Figura 1 - Speranza di vita senza limitazioni a 65 anni per ripartizione geografica e sesso (anni 2014 e 2024)

Figura 1 - Speranza di vita senza limitazioni a 65 anni per ripartizione geografica e sesso (anni 2014 e 2024)

Fonte: Rapporto Bes 2024, Istat

Fatta questa premessa e tornando ai numeri, nel 2024 la speranza di vita senza limitazioni a 65 anni raggiunge i 10,4 anni: rispetto a 10 anni fa il valore è in miglioramento di ben 10 mesi ma, rispetto al 2023, si riduce invece di circa 2. Il che vuol dire trascorrere mediamente gli ultimi dieci anni della propria vecchiaia senza godere di piena autonomia nello svolgimento delle normali attività quotidiane. Scendendo nel dettaglio, i 65enni maschi raggiungono al 2024 il massimo di anni di vita attesa: 19,8, di cui però solo poco più della metà, 10,6, da vivere senza limitazioni. Per le donne, la speranza di vita a 65 anni si attesta a 22,6 anni: di questi solo meno della metà, 10,3, saranno vissuti in piena autonomia. Ancora una volta poi, al divario di genere si aggiunge il gradiente Nord-Sud, dove sono le Isole a registrare il valore più basso, con soli 8,8 anni di vita in buona salute dopo i 65. 

Insomma, negli ultimi decenni il nostro Paese ha visto positivamente crescere la speranza di vita ma non ha fatto di pari passo per la quanto riguarda la buona salute: basti pensare che il 48,9%, cioè quasi la metà, degli over 75 (che, all’1 gennaio 2025m sono 7,580 milioni, quasi il 13% della popolazione complessiva) convive con 3 o più patologie croniche o ha gravi limitazioni nello svolgimento delle normali attività quotidiane. Una condizione di fragilità che, prevedibilmente cresce all’avanzare dell’età ma che, ancora una volta, vede più esposte le donne e il Sud, oltre che le persone meno istruite. La quota di over 74 in cattive condizioni di salute risulta infatti minore tra i diplomati (42,8%) rispetto a chi possiede al massimo la licenza elementare (52,9%). 

Figura 2 – Persone di 75 anni o più in condizione di “fragilità” per sesso, età e ripartizione geografica  (anno 2024)

Figura 2 – Persone di 75 anni o più in condizione di “fragilità” per sesso, età e ripartizione geografica (anno 2024)

 

Fonte: Rapporto Bes 2024, Istat

Come spiegare questi divari? Se complesso è il fenomeno ed evidente che molte sono le chiavi di lettura – biologiche, socio-sanitarie, politiche, economiche e culturali - destinate a intrecciarsi tra loro, vale senza dubbio cogliere l’occasione per una riflessione sul ruolo, e sulla diffusione, della prevenzione in Italia.


Morti evitabili e fattori di rischio: qualche spunto sul tema della prevenzione

Utile ancora una volta partire dai dati e, in particolare, dalla nozione di mortalità evitabile (prevenibile e trattabile) che fa riferimento a tutti quei decessi – monitorati tra persone di età compresa tra gli 0 e i 74 anni – che potrebbero essere evitati, o quantomeno significativamente ridotti, grazie al contenimento di fattori di rischio ambientali e comportamentali e a un’assistenza sanitaria adeguata e accessibile. Per fare un esempio concreto, a livello europeo, tra le principali cause di decessi prevenibili – riguardanti in particolare stili di vita e modelli di comportamento - spiccano soprattutto il cancro ai polmoni, le cardiopatie ischemiche,  i disturbi alcol-correlati e a partire dal 2020 anche COVID-19, mentre tra quelle trattabili – attinenti in particolare il tema dell’assistenza sanitaria - figurano, insieme alle cardiopatiche ischemiche, anche il cancro del colon-retto, il tumore al seno e le malattie cerebrovascolari. 

Al 2022, ultimo anno di rilevazione disponibile, il tasso standardizzato di mortalità evitabile per il nostro Paese è risultato pari a 17,6 per 10mila residenti, valore in netto calo rispetto al biennio pandemico 2020-2021: scomponendo l’indicatore, si osserva che la riduzione più consistente ha riguardato la mortalità prevenibile, calata dai 12,8 per 10mila residenti del 2021 agli 11,3 dell’anno precedente. Ancora ampia la distanza di genere, con valori in questo caso decisamente più elevati tra gli uomini, tra i quali risultano più diffusi stili di vita poco salutari come abuso di alcol, propensione al fumo e alimentazione non adeguata (scarso consumo di frutta e verdura). L’attenzione ai comportamenti più o meno a rischio tende d’altro canto a essere sensibile a diverse variabili socio-demografiche e non immune alla componente geografica, con le regioni del Sud ancora una volta “sfavorite” (20,3 la mortalità evitabile di Sud e Isole contro il 15,6 del Nord-Est). È però il titolo di studio a rivelare la disuguaglianza più marcata: tra il 2019 e il 2022, tenendo dunque anche conto di COVID-19, la mortalità evitabile è aumentata di più tra i meno istruiti. 

È del resto la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità a stimare che circa l’80% delle patologie cardiovascolari, almeno il 40% dei tumori e la quasi totalità dei casi di diabete di tipo 2 potrebbero essere prevenuti “semplicemente” con interventi mirati al contenimento dei principali fattori di rischio. Quanto agli alcolici, il Rapporto Bes ci dice che il 16% degli italiani con più di 14 anni consuma bevande alcoliche con frequenze e/o in quantità considerate a rischio; male soprattutto gli uomini, con le donne che stanno però ricucendo il gap. I fumatori rappresentano invece il 20,5% delle persone di 14 anni e più: con il divario di genere ancora una volta in riduzione, da rimarcare come l’abitudine al fumo sia più radicata nella fascia 20-54, mentre cali marcatamente dopo i 64 anni, quando forse si fa più chiara la consapevolezza dei possibili danni causati alla propria salute. Per quanto stabili, tutt’altro che positivi i dati relativi all’eccesso di peso, più diffuso al Sud: il 45,1% della popolazione italiana di 18 anni e più è in sovrappeso. Una persona su dieci (l’11,3%, percentuale in crescita) è addirittura obesa. Il fenomeno è ovviamente correlato alla sedentarietà, che affligge 2 persone su 10 fino ai 24 anni, e cresce senza troppe soprese con l’età, interessando 6 residenti su 10 dai 75 anni in su. D’altro canto, risulta piuttosto basso il consumo di frutta e verdura, che persino lì dove più diffuso – ovvero tra le persone di 25 anni e più con istruzione elevata – interessa in misura adeguata solo il 21,8% degli italiani. 

Eppure, agire su questi fattori potrebbe generare impatti enormi in termini di riduzione di morbidità, disabilità e mortalità: una questione innanzitutto di benessere individuale e sostenibilità sociale, ma anche economica, se si pensa alle risorse che anche il SSN potrebbe potenzialmente risparmiare e, di conseguenza, indirizzare altrove, dalla ricerca al miglioramento della qualità dei servizi offerti. Ecco perché, dunque, sensibilizzare ed educare a comportamenti più salutari significa agire nell’interesse  sia del singolo che dell’intera collettività.


Prevenzione e promozione della salute: cosa sta facendo l’Italia? 

Giusto per avere un ordine di idee, nel 2022 (ultimo dato di rilevazione disponibile), l’Italia ha investito in prevenzione 10,6 miliardi di euro, vale a dire lo 0,54% del Prodotto Interno Lordo, a fronte di una spesa sanitaria pubblica complessiva di poco più di 130 miliardi: non sono in realtà molti i Paesi a fare meglio sia in rapporto al PIL (Germania, Austria, Finlandia e Paesi Bassi) sia in valori assoluti (Germania e Francia). Il posizionamento scende se si guarda però al dato pro capite: in una forbice che colloca la Germania in testa con 457,7 euro per abitante e la Romania in coda con 24,3 euro, al 2022 l’Italia investe in prevenzione 173 euro pro capite. 

Benché il nostro Paese non svetti nel confronto internazionale, una considerazione si fa da subito evidente: in un contesto che vede molte economie avanzate – e non solo la nostra – seguire un approccio più orientato alla cura che alla promozione della salute, difficilmente sarà possibile intervenire su queste cifre nell’immediato futuro. Soprattutto se si pensa all’elevato debito pubblico italiano (in assenza di contributi di scopo, la sanità pubblica grava sulla fiscalità generale) e alle ulteriori pressioni sul welfare derivanti proprio dal progressivo invecchiamento della popolazione. Il classico cane che si morde la coda.

D’altro canto, anche lì dove presenti, i nostri connazionali non sembrano particolarmente sensibili al tema della prevenzione, come dimostrano le statistiche riguardanti alcuni importanti programmi di screening: malgrado volumi in crescita dopo la pandemia, nel 2021 l’Italia risultava ben al di sotto della media europea nelle attività di screening dei tumori del collo uterino e del colon-retto, con le sole attività di prevenzione riguardanti il tumore al seno a reggere il passo con la media UE. Rientrando nel perimetro nazionale, i dati dell’Osservatorio Nazionale Screening relativi al 2024 restituiscono una fotografia con qualche ombra in meno:  i programmi di screening per il tumore della mammella e della cervice hanno raggiunto, rispettivamente, valori di copertura del 50% e del 51%, comunque considerati accettabili ai fini dell’efficacia di questo genere di intervento. Molto al di sotto del valore raccomandato, la copertura da esami per lo screening colorettale, che si attesta al 33,3%, con un Nord in verità più vicino alla soglia raccomandata (45,8%) e un Sud invece lontanissimo (17,8%). 

Figura 3 -  Copertura da esami per screening mammografico, cervicale e colorettale, stratificato per macroaree geografiche e Italia (2024)

Figura 3 - Copertura da esami per screening mammografico, cervicale e colorettale, stratificato per macroaree geografiche e Italia (2024)

Fonte: Osservatorio Nazionale Screening 


Dal concetto di prevenzione a quello di promozione della salute

Ed è forse proprio qui che occorre concentrare gli sforzi, anche nell’ottica di una vecchiaia il più serena possibile: insistere sulla prevenzione, sposando il più ampio concetto di promozione della salute, intesa come quel “processo che consente alle popolazioni di esercitare un maggiore controllo sulla propria salute e migliorarla”. 

Come? Per esempio, attraverso percorsi informativi ed educativi che rinforzino le conoscenze dei cittadini in materia, aiutandoli a prendere decisioni quanto più possibili consapevoli. Senza trascurare altre strade, come efficientamento del SSN (si pensi ad esempio al discusso tema della medicina territoriale) e maggiore valorizzazione delle coperture integrative, la promozione della salute, magari a cominciare fin dalla scuola primaria, diventa una chiave per garantire un maggior benessere individuale e un’aumentata sostenibilità socio-economica della nostra sanità. 

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 


9/12/2025

 
 
 

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