Non solo demografia: sistema energetico e idrico chiamati al rinnovamento

L'ultima edizione del Rapporto Istat pone l'accento su alcune delle sfide che l'Italia sarà chiamata ad affrontare nei prossimi anni: non solo transizione demografica, ma anche rimodulazione del sistema energetico e rinnovamento dell'infrastruttura idrica

Lorenzo Vaiani

L'ultimo Rapporto Istat "La situazione del Paese", come si è già avuto modo di accennare, mostra nitidamente come, almeno dal punto di vista macroeconomico, il nostro Paese sia stato in grado di reagire in maniera solida alle sfide poste dal periodo pandemico. Il nuovo corso che ci attende, e che simbolicamente potremmo far cominciare con il varo del piano Marshall 2.0, ovvero il PNRR, vede tra le questioni più impellenti, oltra a quella legata ai cambiamenti nella struttura per età della popolazione, almeno altre due importanti sfide: la riconfigurazione del sistema energetico e l’ammodernamento dell’infrastruttura idrica.

 

La riconfigurazione del sistema energetico italiano

Sul tema energia sono state spese negli ultimi mesi fiumi di parole e la questione è stata ampiamente esaminata. Il piano italiano che si innesta nella più ampia strategia europea del Green Deal è, almeno sulla carta, valido e l’impegno economico previsto anche grazie alle risorse allocate dal PNRR non è assolutamente trascurabile; tuttavia, le premesse non sembrano delle migliori. La figura 1, infatti, mostra come nel nostro Paese, ormai da oltre un quinquennio a questa parte, la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili si sia sostanzialmente plafonata. Sicuramente il biennio pandemico ha inficiato negativamente, però se si guarda al triennio 2018-2020 si osserva come sostanzialmente l’incremento annuo espresso in terawattora non sia nemmeno nell’ordine dei 10 twh. 

A questo proposito più volte l’Associazione dei produttori energetici italiani (Energia Futura) ha ribadito come il problema di fondo non sia tanto la scarsità delle risorse economiche per la produzione degli impianti bensì l’iter amministrativo-burocratico di approvazione e l'installazione degli stessi. A ciò occorre poi aggiungere un ulteriore aspetto di natura tecnica. Per quanto le fonti energetiche rinnovabili tradizionali come l’eolico e il solare siano “pulite” risentono di un grave problema, l’intermittenza legata alle condizioni meteorologiche. Le potenziali criticità di questa intrinseca caratteristica sono emerse in maniera evidente lo scorso gennaio in Australia quando il Paese è stato colpito da una serie di sfortunate coincidenze ed è stato sull’orlo di una delle più gravi crisi energetiche del XXI secolo. 

Figura 1 - Produzione lorda di energia elettrica da fonti rinnovabili, anni 2011-2021 (in Twh)

Figura 1 - Produzione lorda di energia elettrica da fonti rinnovabili, anni 2011-2021 (in Twh)

Fonte: Presentazione Rapporto Annuale Istat 2023

Occorre, pertanto, essere in grado di produrre energia in maniera continuativa e indipendente rispetto alle condizioni ambientali. Un domani ciò potrà essere garantito in maniera pulita e sicura (ben inteso sicura non significa con rischio 0, nessuna fonte energetica è a rischio nullo) grazie a specifici impianti in grado di produrre energia dai processi di fusione nucleare. Se oggi ciò non è ancora possibile e se si vuole poter far affidamento su una fonte energetica continuativa e a zero emissioni l’unica soluzione sono le centrali nucleari tradizionali, va d'altra parte considerato che sono oramai in fase di definizione (e in alcuni Paesi come la Cina in fase avanzata di costruzione) reattori di quarta generazione in grado di produrre una quantità così minima di scorie da poter essere immagazzinate all’interno degli impianti stessi. Una soluzione che non richiede il trasporto di rifiuti speciali che, anziché essere destinati ad apposite aree di stoccaggio, possono essere gestiti direttamente a ciascun impianto. 

Al di là delle risorse economiche, sarebbe però importante cominciare da una diffusa e importante campagna di informazione sul tema che, indubbiamente anche a seguito di alcuni incidenti ben impressi nell'immaginario collettivo (prima quello di Chernobyl e quindi quello di Fukushima), soffre di numerose resistenze culturali e, a tratti, anche di diffusi luoghi comuni. Innanziutto, sul versante della sicurezza, è bene considerare che già i reattori di seconda generazione, come ad esempio quello di Fukushima [1], sono innanzitutto dotati di un sistema di contenimento esterno, che impedisce la fuoriuscita di sostanze radioattive in caso di incidente grave; misura di sicurezza cui si aggiungono tutta una serie di meccanismi cosiddetti passivi in grado di far diminuire automaticamente la produzione di energia all’aumentare della temperatura.  Senza contare che le maggior parte delle centrali di nuova costruzione utilizzano reattori classificati come Generazione 3+ e dunque ritenuti ulteriormente efficaci in termini di sicurezza [2]

 

L'ammodernamento della struttura idrica

Ciclicamente ogni estate si ripete sempre la stessa situazione con intere aree del Paese soggette al razionamento idrico per carenza di acqua. Il problema, tuttavia, almeno guardando i dati riportati dall’Istat nel Rapporto annuale, parrebbe di facile soluzione se si considera che, in quasi un quinto delle province italiane, oltre il 55% dell’acqua messa in rete viene letteralmente lasciato per strada a causa delle perdite: basterebbe dunque ammodernare il sistema idrico di distribuzione.

Non è infatti pensabile potersi lamentare della scarsità dell’acqua quando in un solo anno, il 2020, sono stati buttati oltre 3,4 miliardi di metri cubi, equivalenti a oltre il 40% del volume annuo totale. E per meglio comprendere la gravità della situazione, basti pensare che l’Istat ha calcolato che, sulla base di un consumo medio giornaliero di 215 litri per persona, i sopracitati 3,4 miliardi sarebbero bastati per soddisfare la domanda di acqua potabile di oltre 40 milioni di persone (vale a dire più degli abitanti di nazioni come Polonia o Canada). La figura 2 mostra con evidenza l’emorragia idrica del nostro Paese: una mappa dalla quale si evince chiaramente come la situazione più grave riguardi la catena appenninica dal Gran Sasso in più. In quest’area oltre due terzi dell’acqua messa in rete viene persa. Nel dettaglio, le due province peggiori sono Latina e Belluno, dove oltre il 70% del volume immesso non raggiunge gli utenti finali. Verrebbe da dire: altro che pubblicità sui consumi responsabili dell’acqua! Qui i problemi sono semmai quelli di un Paese con una rete idrica da Terzo Mondo.

Figura 2 - Perdite idriche totali nelle reti comunali di distribuzione dell'acqua potabile per provincia, anno 2020
(valori in percentuale rispetto al volume imesso in rete)

Figura 2 - Perdite idriche totali nelle reti comunali di distribuzione dell'acqua potabile per provincia, anno 2020

Fonte: Presentazione Rapporto Annuale Istat 2023

Ora, guardando questi tanto semplici quanto disarmanti dati verrebbe da pensare che una gran parte delle risorse del PNRR, che è sempre bene ricordarlo devono essere destinate a finanziare progetti infrastrutturali, siano state allocate per l’ammodernamento del sistema idrico nazionale, che per alcune aree forse sarebbe meglio destinare al rifacimento. Ebbene, le risorse destinate dal Piano non arrivano nemmeno ai 3 miliardi e dovrebbero prtanto consentire di ridurre l’emorragia idrica appena del 15%, oltreutto con una scadenza nell’attuazione degli interventi entro il 2040, quasi un ventennio da oggi. Risulta insomma evidente come le risorse destinate siano irrisorie, mentre i tempi per l’implementazione degli interventi eccessivamente lunghi.

Ecco allora che, almeno provocatoriamente, verrebbe da proporre di rimodulare le risorse del PNRR togliendone una parte ai progetti energetici per favorire quelli idrici, se non altro perché i primi risultano essere più facilmente finanziabili anche dal settore privato mentre i secondi, trattandosi di opere infrastrutturali a bassa resa in termini economici, appaiono meno appetibili e pertanto maggiormente bisognosi di interventi pubblici. 

Lorenzo Vaiani, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

8/8/2023 


[1] Tornando all’esempio di Fukushima, va sottolineato come l’incidente non ebbe alcun legame con il funzionamento del reattore. In quel caso sono stati il terremoto e il conseguente tsunami ad innescare la crisi del reattore. Infatti, ormai tutte le centrali durante un terremoto sono progettate per spegnersi e si attiva il sistema di raffreddamento del nocciolo. In quel caso il terremoto disattivò il sistema di attivazione del raffreddamento; esisteva, tuttavia, un secondo sistema di raffreddamento di emergenza a diesel, ma il piano in cui si trovava il sistema di controllo si allagò a causa dello tsunami. 

[2] Sempre a proposito di sicurezza, se si analizzano i dati sul numero di decessi in relazione alle diverse tipologie di fonti energetiche si scopre che il nucleare è l’ultimo in classifica (0,04 decessi per ogni TWh di energia prodotta), mentre ai primi posti troviamo: carbone (60 decessi per TWh), petrolio (36) e biomasse (16) (fonte Euratom). Insomma, il discorso è il medesimo di quanto si raffronta la sicurezza degli aeromobili con le automobili, i primi sono indubbiamente più sicuri, certo i loro incidenti fanno molto più presa mediatica ma proprio perché sono rari e, purtroppo, molto più impattanti e con un numero di vittime, anche di lungo periodo, quasi sempre estremamente elevato. 

 
 
 

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