Zero novità sulla natalità

Che Paese lasceremo ai nostri figli? Ma, soprattutto, avremo dei figli a cui lasciare il Paese? L'ultimo report Istat sul tema natalità evidenzia che i numeri sono sempre gli stessi, così come le risposte: negativi i primi, deludenti le seconde 

Giovanni Gazzoli

In attesa di sapere se l’incentivo dei terreni agricoli per le giovani coppie ha colpito nel segno, tocca registrare, per l’ennesima volta, dei dati negativi in merito al tema della natalità. Il report Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente | Anno 2018" segnala infatti la continuazione di un trend ormai tristemente noto: in Italia nascono sempre meno bambini.

Nello specifico, nel 2018 l’Anagrafe ha ricevuto l’iscrizione di 439.747 bambini, ossia oltre 18mila in meno rispetto al 2017; meglio ancora, quasi 140mila in meno rispetto al 2008, solo dieci anni fa. Di queste 18mila nascite in meno, quasi 16mila sono relative al numero di bambini nati da genitori entrambi italiani. Al contempo, tuttavia, anche in contrasto con la narrativa che la natalità degli stranieri compenserà quella “autoctona”, calano anche i nati con almeno un genitore straniero: sono 96.578, vale a dire il 22% del totale, in diminuzione continua dal 2012, dei quali 65.444 (14,9% del totale) hanno genitori entrambi stranieri, dato ugualmente in declino dal 2012.

Oltre a tali grigie notizie, siamo altrettanto abituati alle soluzioni proposte, che perlopiù si possono ricondurre a motivazioni economiche e di stabilità professionale: un fattore certamente significativo, ma evidentemente parziale. È invece interessante la spiegazione del fenomeno data dall’Istituto, che amplia lo sguardo adottando una prospettiva storica concentrandosi sul dato della fecondità della popolazione femminile, convenzionalmente fissata tra i 15 e i 49 anni. Ebbene, un’importante parte del problema della natalità italiana è che le donne in età feconda sono sempre meno, prettamente per una motivazione storica: da un lato, infatti, le baby boomers – nate tra gli anni Sessanta e Settanta– stanno uscendo da tale fase, dall’altro le generazioni successive sono sempre meno numerose: “queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995”. Oggi, tale parametro si attesta a 1,29, maggiore rispetto all’annus horribilis ma comunque minore del picco del 2010, quando toccò 1,46. Vale la pena ricordare che il valore ideale per un ricambio generazionale adeguato sarebbe di 2,1 figli per donna, a oggi apparentemente irraggiungibile, visto il lento e inesorabile declino del tasso dal 2010 a oggi. 

Figura 1 - Tasso di fecondità totale (2008 - 2018) 

Fonte: elaborazioni Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali su dati Istat  

Il fatto è che a inizio anni Duemila questo declino è stato parzialmente coperto dall’impatto della popolazione femminile immigrata: “le grandi regolarizzazioni del 2002 hanno dato origine, nel 2003-2004, alla concessione di circa 650 mila permessi di soggiorno, in gran parte tradotti in un “boom” di iscrizioni in anagrafe dall’estero, che ha fatto raddoppiare il saldo migratorio rispetto al biennio precedente”. Ora che anche questa popolazione sta invecchiando e che, come abbiamo visto in apertura, genera una natalità che segue il trend di declino generale, emerge la radice del problema.

Si è accennato infine precedentemente al fattore economico, significativo rispetto al calo delle nascite. Lo conferma l’Istituto, asserendo che gli effetti sociali della crisi economica sono riscontrabili nel fatto che “le donne residenti in Italia hanno accentuato il rinvio dell’esperienza riproduttiva verso età sempre più avanzate”: rispetto al 1995, oggi l’età media al primo parto aumenta di ben tre anni, arrivando a 31,2. Certo, la stessa dinamica storica – come detto precedentemente – ci suggerisce che ci sia qualcosa che vada al di là dei cicli economici: negli anni Venti si avevano 2,5 figli per donna, 2 nel secondo dopoguerra, fino a 1,43 della generazione del 1978: è evidente come il cambio della società e dei modelli sociali e culturali di riferimento giochi un ruolo primario in questa dinamica.

Ed è altresì evidente come, di questo passo, la situazione sia destinata a peggiorare. Come è infatti emerso dall’Osservatorio sulla sostenibilità della spesa per pensioni in un'ipotesi alternativa di sviluppo elaborato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, “nei prossimi decenni andremo senz’altro incontro a un contesto demografico fortemente negativo, con saldo naturale sempre più in rosso e struttura per età fortemente sbilanciata verso la popolazione anziana, soprattutto nel Mezzogiorno”: c’è da dire, tuttavia, che la stessa Istat resta molto prudente circa le previsioni a lungo termine e, per la stessa stima della fecondità, ipotizza un range di numero medio di figli per donna al 2045 compreso tra 1,26 e 1,8. In sostanza, commenta l’Osservatorio, “non sappiamo davvero cosa succederà alla fecondità italiana: potrebbe diminuire in modo drammatico o potrebbe salire verso i valori dei Paesi europei più prolifici”.

Insomma, sono numerose le componenti in gioco in questa difficile battaglia: non solo economiche, ma anche storiche e culturali. Per questo è utile insistere sugli aiuti alle giovani famiglie, in particolare alle donne (si pensi al delicato e difficile tema della conciliazione lavoro-famiglia), ma è futile delegare la risoluzione di questo problema a un intervento normativo in materia economica, ancor più in un periodo in cui lo sguardo ampio e a lungo termine non sembra caratterizzare le scelte dei legislatori.

Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

18/12/2019

 
 

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