Semplifichiamo i meccanismi per investire in private market

Quali sono le ragioni che ancora frenano il completo decollo degli investimenti alternativi in Italia? Nonostante un sistema che, almeno in apparenza, sembra pronto al definitivo salto di qualità c'è di fatto ancora bisogno di un più approfondito confronto tra tutti gli attori del comparto

Gianmaria Fragassi

Da tempo si avverte l’esigenza di mettere in campo un serio programma teso a incentivare, anche attraverso nuove agevolazioni fiscali e semplificazioni normative, l’afflusso di capitali privati alle piccole e medie imprese. Oggi più che mai viste le drammatiche ripercussioni dovute alla pandemia di COVID-19 ancora in corso. Gli investitori istituzionali italiani, da questo punto di vista, sono da tempo protagonisti di un percorso di investimento - soprattutto grazie all’immissione di capitali nei private market - che consente alle imprese finanziate di crescere, internazionalizzarsi ed efficientare il proprio business. Processo che, allo stesso tempo, consente loro di beneficiare di una maggiore diversificazione negli impieghi e aggiungere fonti di rendimento alternative. Rispetto a solo pochi anni fa, esistono numerose buone pratiche e casi virtuosi che dimostrano come la strada intrapresa sia quella giusta. 

Tuttavia, i dati sui private market in Italia sono ancora molto contenuti se confrontati con la media di altri Paesi europei (per non parlare del mercato statunitense). In questi mercati sono presenti operatori di private equity e private debt con AUM imparagonabili rispetto agli operatori italiani (Ardian in Francia, 100 miliardi; Partners Group in Svizzera, 60; Tikehau Capital, 30). Nel nostro Paese gli investimenti in quest'ambito sono in costante ma lento aumento, ma l’Italia non gioca ancora un ruolo da protagonista, nonostante sia il terzo PIL dell’Eurozona e sia seconda solo alla Germania per valore della produzione manifatturiera. Una certezza su cui si basano le riflessioni degli addetti ai lavori: operatori, investitori e legislatore sono tutti convinti dell’importanza di supportare il tessuto industriale italiano e, dunque, di indirizzare gli investimenti verso l’economia reale attraverso i mercati privati. E, allora, a cosa è dovuto questo straordinario ritardo rispetto alle altre realtà europee? 

Non tutto si risolve aumentando gli incentivi o le agevolazioni fiscali, anche se qualcosa già esiste. La Legge di Bilancio per il 2017 (legge  232/2016) introduce importanti disposizioni in materia fiscale sugli investimenti degli enti previdenziali: in particolare, prevede la possibilità di destinare somme fino al 5% dell’attivo patrimoniale agli investimenti qualificati; i redditi finanziari derivanti saranno esenti dall’imposta sul reddito. La Legge di Bilancio per il 2019 ha poi innalzato, a decorrere dall'1 gennaio 2019, dal 5% al 10% dell’attivo patrimoniale il limite degli investimenti effettuabili da parte degli enti di previdenza. Dove, per investimenti qualificati si intendono quelli in azioni o quote di imprese residenti fiscalmente in Italia, nella UE o nello spazio economico europeo, ovvero in azioni o quote di OICR (organismi di investimento collettivo del risparmio: fondi comuni di investimento; società di investimento a capitale variabile - SICAV; società di investimento a capitale fisso - SICAF; fondi di investimento alternativi - FIA) residenti fiscalmente in Italia, nella UE o nello spazio economico europeo, che investono prevalentemente nelle predette azioni o quote di imprese. 

Non tutto può però appunto dipendere dalla generosità delle agevolazioni fiscali. Il sistema ha infatti bisogno di consolidare le modalità e le forme di contatto tra investitori istituzionali e gestori di fondi operanti nei private market. La soluzione alle difficoltà, quindi, non si riduce solo all’organizzare e al tentare di semplificare la normativa delle agevolazioni fiscali. Ci sono pro ma altrettanti contro nelle agevolazioni fiscali a oggi vigenti: il mercato della manifattura e produzione italiana è vasto ma le aziende selezionate sono poche, le dimensioni dei fondi (piccoli) sono un neo; la difformità informativa non aiuta e i livelli di rischio sono elevati, solo per citarne alcuni. Sono tanti dunque i fattori che influiscono negativamente sul definitivo decollo del sistema. Oltretutto, le agevolazioni dovrebbero essere condivise di concerto tra tutti gli operatori coinvolti prevedendo seri tavoli di lavoro congiunti, e non calate dall’alto. Come spesso accade nel nostro Paese, manca il confronto. Questo ci dice che l’investimento in economia reale ha bisogno di ragionamenti continuativi, confronti e un po' di skin in the game da parte di tutti. 

Riguardo ai tempi e le regole per ottenere le suddette agevolazioni, diversi operatori lamentano la poca chiarezza legata al loro ottenimento: non risulta infatti chiaro, ad esempio, quale sia l’esatto periodo di riferimento per ottenere i benefici fiscali, o quale invece il controvalore esatto da considerare: l’importo sottoscritto? L’importo richiamato? Nel computo complessivo le commissioni devono essere incluse o rimangono fuori? C’è poi tutto il tema di certificare e attestare, con relative responsabilità, che gli investimenti effettuati rientrino davvero sotto il cappello "dei qualificati". Per avere quindi il beneficio fiscale, magari su una porzione minima del proprio patrimonio, l’iter complessivo diviene davvero laborioso e non privo di responsabilità. A quanto sembra, intravedendo un margine di errore complessivo non così contenuto, si corre in conclusione il rischio di arrivare a chiedersi se valga davvero la pena ottenere quel poco di agevolazione che la normativa concede o, piuttosto, non sia meglio investire comunque in economia reale anche senza l’incentivo fiscale. 

Così facendo si perde però, o meglio si rischia di perdere, la potenza di fuoco che gli investitori istituzionali possono certamente mettere al servizio dell'economia reale italiana. Prima di tutto allora, prima ancora di aumentare le agevolazioni, prima di emanare nuove norme o mandare in consultazione nuovi provvedimenti fiscali, sarebbe utile un passo indietro per una vera riflessione congiunta al fine di semplificare i processi per gli operatori. Facile? No, ma ci proviamo. 

Gianmaria Fragassi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

9/3/2021

 
 

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