Aumenta la distanza tra i politici e l'economia reale

Quadro demografico, produttività piatta e scarse prospettive di crescita economica influenzano negativamente i giudizi degli organismi internazionali nei confronti dell'Italia: le strade da percorrere per virare verso un moderato ottimismo non mancano, a patto però di non cadere nell'errore di fare ulteriore debito 

Alberto Brambilla e Michaela Camilleri

Fondo salva-Stati (Meccanismo europeo di stabilità-MES), Legge di Bilancio in deficit per oltre 14 miliardi, scarsa crescita e crisi industriale alle porte: questi, purtroppo, gli ingredienti della politica economica italiana con i quali fare i conti. Il risultato? Gli organismi internazionali - FMI, Commissione UE, OCSE e così via - esprimono dubbi e timori sul futuro del nostro Paese, dubbi che spesso condizionano negativamente i giudizi delle società di rating e dei mercati, con i nefasti risultati evidenziati dallo spread.

È di pochi giorni fa l’approvazione (con riserva) della Legge di Bilancio da parte della Commissione Europea, anche se (e questo peserà e non poco sui futuri giudizi) le ipotesi formulate dal Working Group on Ageing (WGA) di cui si avvale l’Unione delineano un quadro per il nostro Paese tutt’altro che roseo: crescita e occupazione sono stimate sistematicamente al di sotto delle medie europee, per cui subiamo tutti gli effetti negativi dell’invecchiamento della popolazione in assenza di un miglioramento demografico, di produttività e di sviluppo. Ma le variabili alla base di queste previsioni come la demografia, il mercato del lavoro e, più in generale, lo sviluppo sono già tutte scritte? Lo scenario che ne deriva per l’Italia è per forza così grigio o esiste un’ipotesi di crescita alternativa? La nostra spesa pensionistica sarà davvero insostenibile in futuro? Secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali la chiave di lettura riguardo al futuro del nostro Paese potrebbe essere più ottimistica e sostenibile a patto di non fare più ulteriore debito. 

Vediamo per punti. A) Le proiezioni demografiche: sulla base delle previsioni dell’Istat, l'Unione Europea e gli organismi internazionali penalizzano l'Italia nei giudizi per la riduzione della popolazione, che dagli attuali 60,5 milioni scenderà nel 2045 a 59 milioni a causa il basso tasso di fecondità (che pure aumenta da 1,34 a 1,53 figli per donna). Causa principale del giudizio negativo è però la riduzione dell’immigrazione da 340mila ingressi netti l’anno a 191mila, e anche molti meno negli anni successivi. Ma se l’invecchiamento della popolazione è certo, anche per l’aumento dell’aspettativa di vita (da 80,6 a 84,2 anni per gli uomini e da 85 a 88,5 per le donne), la demografia non è “tutta già scritta” e una riduzione della popolazione non implica un abbassamento del tenore di vita, che è certamente più importante della crescita del PIL. Infatti nel 2008 l'Italia contava “appena” 60 milioni di abitanti e nessuno si preoccupava che fossimo in pochi e, peraltro, adeguate politiche familiari e di conciliazione vita-lavoro potrebbero favorire nei prossimi anni l’aumento della natalità con riflessi positivi sul 2045/50. Infine, venendo all’immigrazione, una volta “blindati” i confini, come fanno molti Paesi (tra Svezia e Danimarca controllano i passaporti; in molti Paesi di Asia, America Latina e Africa, scaduti i 3 mesi di visto d’ingresso si è automaticamente “ricercati” e, se si viene presi, il carcere è sicuro e non è una passeggiata), si potrebbe immaginare di regolarizzare almeno 500mila lavoratori che sono irregolari in Italia da oltre 5 anni con pagamento, rateizzato in 10 anni tra lavoratori e datori, di 2mila euro l’anno; di colpo aumenterebbero il tasso di occupazione e la popolazione, diminuirebbe l’età media italiana e migliorerebbe il rapporto attivi pensionati. Poi, se necessario, si potrebbero anche copiare i bandi specialistici d’ingresso per lavoratori stranieri, di Canada e Australia. Come si vede, non tutto è già scritto e gli spiragli alternativi al tanto preoccupante declino demografico ci sono tutti. 

B) Le prospettive occupazionali: giovani, donne e anziani. Anche qui le istituzioni UE e internazionali, proprio a causa dell’invecchiamento della popolazione, prevedono un tasso di occupazione totale modesto e un rapporto negativo tra attivi pensionati. Si scordano però di valutare, da un lato, gli stabilizzatori che legano la pensione all’aspettativa di vita e, dall’altro, l’enorme “riserva di forza lavoro inutilizzata” che consentirebbe al nostro Paese enormi miglioramenti considerando che l’attuale tasso di occupazione complessivo è al 59% circa, penultimo dopo la Grecia e 8 punti in meno della media UE (15 in meno rispetto ai Paesi nordici); stesso discorso per quello delle donne (circa 50%). Tra disoccupati, giovani che non studiano e non lavorano e quelli che non cercano più lavoro, l'Italia dispone di “un esercito di riserva” di oltre 5 milioni di soggetti, prevalentemente giovani e donne, il “carburante” giusto per migliorare l’occupazione; tant’è che, nel 2045, il tasso di disoccupazione dovrebbe scendere per via naturale sotto il 4,5%. 

C) Produttività e crescita dell’economia.  La produttività del lavoro assume un ruolo cruciale per la sostenibilità del Paese ma, anche qui, il giudizio della Commissione e degli organismi internazionali è negativo: produttività piatta per i prossimi anni e poi crescita modesta. E allora che fare? Esattamente il contrario di quello previsto nella Legge di Bilancio: 1) non fare nuovo debito; 2) non dire bugie, perché l’aumento dell’IVA non è stato eliminato, ma pagato per il 2020 a debito (alla faccia delle giovani generazioni che tutti i politici dicono di voler tutelare) e da disinnescare per i prossimi anni (ancora a debito?); 3)  impostare una politica industriale, che in Italia manca da oltre 20 anni, e non certo con nuove tasse sulla plastica o sulle bevande zuccherate, ma spendendo tutto il possibile per rafforzare  industria 4.0 e introdurre il maxi-ammortamento del costo del lavoro anziché per le pensioni (la metà delle quali oggi sono assistenziali) o per il reddito di cittadinanza o per i vari bonus (elettorali?) ma rafforzando industria 4.0 e introducendo il maxi ammortamento del costo del lavoro; 4) agevolare le nuove attività giovanili nei settori del commercio, dell'artigianato, dell'agricoltura e dei servizi, consentendo meno burocrazia, permettendo di ammortizzare nell’anno gli investimenti e di pagare tasse e contributi coerenti con i redditi realmente realizzati; 5) far funzionare la Pubblica Amministrazione (non è pensabile scoprire nell’era di internet che ci sono persone cui sono intestate 1000 automobili o 40 case e così via, pur risultando nullatenenti, così come non è pensabile che milioni di italiani che dopo una certa età non presentano una dichiarazione dei redditi restino sconosciuti al fisco).

Ci sarebbero ancora un sacco di cose da proporre (infrastrutture obsolete, troppe microimprese, troppe leggi, una giustizia amministrativa che non funziona e una spesa pubblica sbilanciata sulla spesa assistenziale e corrente e non su quella di scuola e in conto capitale) ma la politica è, da troppi anni, occupata in una perenne campagna elettorale e nella ricerca spasmodica del consenso, con continue promesse di assistenza e sussidi a scapito delle giovani generazioni e di quel 12% della popolazione che sostiene con oltre il 60% delle imposte l’intera “baracca”.

I casi ius culturae, Ilva, Alitalia e le possibili nuove tasse non aiutano. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Michaela Camilleri, Area Previdenza e Finanza Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

2/12/2019

L'articolo è pubblicato sul Corriere della Sera, L'Economia del 2/12/2019
 
 

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