Perché l'Italia frammentata è un costo che non possiamo permetterci
Sono ormai oltre vent'anni che nel nostro Paese si discute di autonomia differenziata ma, dati alla mano, l'Italia non sembra potersi permettere un'ulteriore frammentazione dei propri apparati. Ridurre i centri di spesa e gli squilibri regionali le priorità per migliorare sviluppo e competitività
Non è mai troppo tardi diceva Alberto Manzi, il maestro italiano... E lo stesso potremmo dirlo al PD versione Schlein che, sconfessando oltre 23 anni di autonomismo, si è buttato a capofitto a raccogliere firme per labrogazione della legge 86/24, made in Calderoli, sullautonomia differenziata. Si tratterebbe del secondo referendum perché ne aveva già fatto uno il 7 ottobre 2001 (in pieno secondo governo Berlusconi) ma, questa volta, per chiedere ai cittadini di avallare il testo della legge costituzionale concernente "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione", approvato il 28 febbraio 2001 dalla Camera e il successivo 8 marzo dal Senato con i soli voti del centrosinistra allo scadere della legislatura che si concluse il 29 maggio e, per questa ragione, il resto del Parlamento non partecipò al voto. Fu una vittoria strepitosa con il 64% e più a favore e solo il 36% circa contro, ma con un'affluenza del solo 34% della popolazione.
Nel contempo, la Lega (quella vera) passava dal federalismo alla dichiarazione di indipendenza della Padania del 1996 alla secessione e alla devolution del 2001 con il made in Padania di Calderoli, il politico trentennale famoso per il Porcellum e il falò di scatoloni vuoti. Poi, silenzio fino al progetto del Ministro degli Affari Regionali Delrio, partito con il governo Letta e conclusosi nel 2014 con il governo Renzi (eliminazione delle province e istituzione delle città metropolitane). Nel 2017, precedendo Lombardia e Veneto, è Bonaccini a chiedere al governo Gentiloni lautonomia differenziata per lEmilia-Romagna, inviando nel 2018 addirittura una lettera a Conte per avere tempi certi. Infine, ma solo per sintesi, il progetto presentato da Boccia e Serracchiani nel 2021 sempre sullautonomia differenziata.
La legge 86/24, sovrapponibile a quella di Boccia, attua lart. 116 della Costituzione, riformato dal governo Amato nel 2001, che prevede il trasferimento di funzioni (20+3) e relative risorse alle regioni a statuto ordinario (RSO) che ne facciano richiesta. Tra queste: rapporti internazionali e con lUnione Europea; commercio con lestero; istruzione; alimentazione; protezione civile; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dellenergia; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno allinnovazione per i settori produttivi; porti e aeroporti civili.
Al di là della bagarre politica, è lintera impostazione di riforma del titolo V che non regge, per almeno due ragioni. La prima, siamo già oggi un Paese con un'enorme parcellizzazione amministrativa che ne limita sviluppo e competitività perché ogni centro di potere fa leggi e regolamenti tutti diversi: in Italia ci sono circa 7.900 comuni, di cui solo poco più di mille con almeno 15mila abitanti; 107 province ancora operative, di cui 10 città metropolitane, 19 regioni e due province autonome (Trento e Bolzano). Tra le regioni ce ne sono 4 a statuto speciale: Sicilia, Sardegna, Valle dAosta e Friuli-Venezia Giulia: che senso ha tenerle ancora nel pieno dell'UE? E poi ci sono le 148 comunità montane che, istituite nel lontano 1971, si dovevano abolire nel 2012. In totale, i centri dotati di poteri amministrativi, escludendo i parchi, sono 8.190 che diventano 8.386 includendo Asl e AO ed escludendo le municipalizzate. E, ancora, che senso ha avere regioni come Valle d'Aosta (126.202 abitanti), Molise (308.493), Basilicata (567.118), Umbria (879.337), Trentino-Alto Adige (1.074524) che, come molti comuni e molte province, sono troppo piccole per essere efficienti se non come poltronifici? E vogliamo davvero anche 19 ministrini che si occupino dei rapporti internazionali e con l'Unione Europea o che trattino di istruzione, grandi reti, e così via? Siamo al ridicolo ma cè da piangere. Prima di parlare di ulteriore autonomia occorre riformare, riducendo almeno della metà i centri decisionali e riportare gran parte delle materie a unità lasciando la gestione operativa a entità più grandi ed efficienti, eliminando il coacervo di norme diverse tra comuni e regioni che rallentano la crescita del Paese.
Il secondo punto è che negli ultimi almeno 40 anni l'Italia è stata pressoché immobile. Nel 1980 per ogni cento euro ricevuti da ciascuna regione in prestazioni e servizi, il Nord ne pagava circa 125, il Centro con il Lazio e Roma, sede di tutto Stato e parastato, circa 110 e il Sud poco più di 55; gli ultimi dati disponibili, relativi al 2021, sono rispettivamente 112, 106 e 62. Per il solo welfare il Sud per ogni 100 euro ricevuti ne pagava 53 nel 1981, 55 nel 1991, 58 nel 2001, 57 nel 2021. Per quanto riguarda lIRPEF, la maggiore imposta diretta, il Nord ne versa il 57%, il Centro circa il 21,8% e il Sud il 20%. La Lombardia, con 9,8 milioni di abitanti, versa più IRPEF di tutto il Sud con 20 milioni di residenti; facendo il pro capite, un cittadino del Nord in media versa 3.660 euro di IRPEF lanno contro i 3.244 euro del Centro e i 1.820 euro del Sud, che non riesce nemmeno a coprire il costo della sanità pro capite che è di 2.144 euro. Per lIRES, le percentuali sono identiche a quelle IRPEF, mentre passando allIVA il Nord con 27.486.438 di abitanti ha un pro capite di 3.034,10 euro; il Centro con 11.786.952 di abitanti versa, anche grazie alla massiccia presenza delle amministrazioni e aziende pubbliche o partecipate, 2.796,11 euro per cittadino, mentre il Mezzogiorno con 19.962.823 di abitanti versa unIVA pro capite di appena 677,56 euro. Si può davvero pensare che al Sud i consumi siano 4,5 volte meno che al Nord? Certo che no! Risultato, il residuo fiscale (entrate-uscite) per il 2019 (dati Banca d'Italia) presenta un pro capite di positivo di 2.931 euro al Nord, un +1.261 euro al Centro e un -3.178 euro al Sud, una botta da 63,5 miliardi lanno da coprire.
Figura 1 - Il bilancio del welfare regionalizzato (2021)
Fonte: Settimo Rapporto La Regionalizzazione del Bilancio Previdenziale italiano
E con questi dati vogliamo dare ulteriori funzioni prima di prevedere un'enorme riduzione dei centri di spesa e portare, come prevedeva un nostro progetto del 2001, tutte le regioni ad almeno un'autosufficienza del 75% lasciando alla solidarietà nazionale il restante 25%. Ha ragione la Commissione UE quando dice che «La devoluzione di ulteriori competenze alle regioni italiane comporta rischi per la coesione e le finanze pubbliche del Paese». Forse è tempo che anche i ministri leghisti abbiano i ripensamenti del PD.
Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali
26/8/2024