Troppo debito per finanziare il welfare italiano

Nel corso degli ultimi 40 anni l'insufficiente capacità di coprire con contributi di scopo la spesa per protezione sociale ha pesato in maniera sostanziale sul debito pubblico italiano, complici soprattutto i bassi tassi di copertura di diverse Regioni, in particolare al Sud: come liberare risorse da investire nello sviluppo del Paese?

Bruno Bernasconi

Dall’analisi dei dati rielaborati dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali nel Settimo Rapporto “La Regionalizzazione del Bilancio Previdenziale italiano”, presentato lo scorso 7 novembre al CNEL, emerge come ben 12 Regioni italiane presentino un rapporto tra entrate contributive e uscite per prestazioni al di sotto del 75%, soglia che può essere considerata come uno spartiacque di un sistema vicino all’equilibrio, con pesanti disavanzi soprattutto nel Mezzogiorno. Com'è facilmente intuibile, ciò determina deficit annuali che hanno contribuito a far lievitare il debito pubblico, sottraendo oltretutto risorse a quegli investimenti in produttività e competitività che migliorerebbero il mercato del lavoro, riequilibrando il sistema. 

L’entità dei disavanzi regionali, e il conseguente squilibrio tra le diverse aree del Paese, è ben spiegata dal peso assunto dalla componente assistenziale tra le varie voci di spesa. Come evidenziato dalla pubblicazione, esiste infatti una correlazione diretta tra saldi di gestione e tipologia delle prestazioni in erogazione: dove prevalgono saldi positivi e tassi di copertura intorno al 70% la maggior parte delle prestazioni sono di tipo “previdenziale” e quindi supportate da contributi realmente versati; viceversa, dove i tassi di copertura e i saldi sono fortemente negativi prevalgono prestazioni di tipo “assistenziale”, finanziate dalla fiscalità generale. Dall'aggregazione dei dati per macroaree, emerge che il Mezzogiorno, dove si trovano la maggior parte delle regioni con deficit più elevati, assorbe il 52,37% dell’intera spesa assistenziale con una popolazione residente pari al 33% del totale, contro il 28,21% del Nord che però ospita il 46% della popolazione italiana.

Il problema della "non autosufficienza" non è però figlio solo del deciso incremento della spesa assistenziale degli ultimissimi anni, che pure non sembra aver sortito gli effetti sperati dato il notevole aumento delle famiglie che, secondo le rilevazioni Istat, si trovano in condizioni di povertà sia assoluta che relativa. L’indagine condotta lungo una serie storica di ben 42 anni, dal 1980 al 2021, non mostra infatti cambiamenti sostanziali nella distribuzione regionale delle entrate e delle uscite, rimarcando invece un'insufficiente capacità di coprire con contributi di scopo la spesa per welfare (con conseguente necessità di attingere alla fiscalità generale); incapacità che, senza interventi, sembra destinata a peggiorare dato il progressivo invecchiamento della popolazione. 

 

L’evoluzione di entrate e uscite dal 1980 al 2021

Analizzando la serie storica dei dati si nota come le entrate contributive siano aumentate dai 16,2 miliardi di euro del 1980 ai 148,6 miliardi del 2021, con un incremento dell’816% inferiore però al +919% segnato dalle uscite per prestazioni, salite da 17,9 a 182,5 miliardi per effetto da un lato dell’adeguamento dell’importo delle pensioni e dall’altro dell'erogazione di maggiori trattamenti assistenziali. 

Nello stesso periodo i due parametri economici di riferimento, l’inflazione e il PIL, hanno registrato un incremento rispettivamente del 554,98% e del 732%, con il Prodotto Interno Lordo cresciuto dai 213,379 miliardi del 1980 ai 1.775,436 del 2021. Nel frattempo, l’occupazione è passata dalle circa 19.700.000 unità del 1980 alle 22.884.000 del 2021, con un tasso in progressivo miglioramento fino al record del 64,8% registrato lo scorso anno, ancora però inferiore di circa 10 punti percentuali rispetto alla media dell’UE: all’appello mancherebbero infatti circa 13 milioni di italiani sui 36 milioni in età lavorativa, tra NEET, lavoratori irregolari e bassa occupazione femminile. 

D'altra parte, il citato incremento della spesa per prestazioni ha generato una serie di deficit annuali che sono stati finanziati mediante emissione di debito pubblico, cresciuto di un impressionante 2.194% e passato dai 116,74 miliardi del 1980 ai 2.678,4 del 2021. Una parte importante di questo debito, di fatto, deriva dalle concessioni pensionistiche fatte nel periodo economicamente migliore dopo il boom del Secondo Dopoguerra, a partire dalla “poco previdente” riforma Brodolini del 1969. Solo la riforma Amato del 1992, insieme alla successiva introduzione del sistema di calcolo contributivo, cominciò ad arginare la “generosità” -non economicamente sostenibile - del nostro sistema di protezione sociale. Da notare, tuttavia, che le “generose” prestazioni frutto di quel periodo storico, tra le cause dei disavanzi previdenziali, sono ancora in fase di esaurimento dopo oltre 10 anni dalla riforma Monti-Fornero che ha introdotto il contributivo pro-rata.

 

Come si è formato il debito pubblico?

Come detto, uno dei principali problemi del nostro Paese è il pesante debito pubblico che, dopo un aumento di quasi mille miliardi tra il 2009 e il 2021, si sta pericolosamente avvicinando alla soglia dei 3mila miliardi di euro: cifra vertiginosa imputabile alla poca attenzione nei confronti della precaria situazione dei nostri conti pubblici da parte dei diversi governi che si sono succeduti, a prescindere dall’orientamento politico, con la tendenza a privilegiare misure di breve periodo a scapito di interventi strutturali a favore di crescita e maggiore efficienza del sistema Paese. 

A questo punto sorge però spontaneo chiedersi come si è formato questo enorme debito. Esaminando i bilanci pubblici e previdenziali, si nota che una parte consistente è appunto causata dai disavanzi degli enti pensionistici e assistenziali. Nei 42 anni analizzati dalla Settima Regionalizzazione di Itinerari Previdenziali, sommando tutti i disavanzi INPS si arriva a una cifra di 1.098,75 miliardi che, aggiungendo la stima dei saldi delle gestioni dei dipendenti pubblici pari a 252,7 miliardi, porta il deficit accumulato in moneta corrente a 1,351,5 miliardi, pari a oltre la metà dei 2.678 miliardi di debito pubblico 2021. Calcolando invece l’incidenza dei disavanzi sul debito pubblico in moneta 2021, il sistema INPS evidenzia un disavanzo cumulativo di periodo pari a 1.479,5 miliardi di euro, al quale si somma quello prodotto dalle gestioni dei dipendenti pubblici (344,73 miliardi) per un totale di 1.824,2 miliardi, pari al 68,1% del debito pubblico italiano.

Scendendo ancor più nel dettaglio, sulla base dei saldi tra entrate e uscite per prestazioni in moneta 2021 ottenuti da ogni singola Regione, è possibile calcolare una sorta di “stato patrimoniale regionale" e, di conseguenza, stimare quanto ciascuna Regione ha contribuito alla formazione del debito pubblico nazionale. In particolare, suddividendo il disavanzo in moneta 2021 per le tre macro-aree geografiche del Paese, il Mezzogiorno con 20 milioni di abitanti produce il 59,9% del deficit totale (Sicilia, Campania e Puglia producono il 41,4% del debito totale), il Centro (11,8 milioni di abitanti) ne assorbe il 15,3%, mentre il Nord (27,5 milioni di abitanti) concorre per il 24,3%. 

 

Alcune riflessioni conclusive

La questione del debito pubblico, oltre a creare problemi di equità intergenerazionale e sottrarre risorse allo sviluppo, è ulteriormente aggravata da una serie di statistiche che vedono l’Italia in fondo alle classifiche europee: siamo agli ultimi posti in termini di crescita del Paese, crescita dei salari, produttività e occupazione e primi, viceversa, per evasione fiscale e contributiva. 

Negli ultimi mesi l’Italia è stato il Paese con lo spread sul decennale tedesco più alto in Europa, a indicare la scarsa fiducia dei mercati nei confronti di Roma. Lo scorso 17 novembre Moody’s ha alzato l’outlook sul debito italiano da negativo a stabile confermando il rating Baa3, il gradino più basso dell’investment grade. Una decisione forse scontata dato le ripercussioni a livello sistemico che avrebbe avuto un declassamento a livello junk dell’Italia, la terza economia in Europa e Paese membro del G7. Fa riflettere, inoltre, come poco più di 10 anni dopo aver chiesto l’aiuto dell’UE e del FMI nel 2011 nel mezzo della crisi dei debiti sovrani il Portogallo abbia incassato dalla stessa agenzia americana un doppio upgrade da Baa2 a A3, presentando ora uno spread pari a 1/3 di quello italiano. Persino la Grecia ha visto ormai da mesi i rendimenti del proprio decennale scendere stabilmente al di sotto di quelli del BTP, con un differenziale rispetto al Bund inferiore al nostro. 

Dall’analisi condotta, appare allora evidente come il portare i saldi di copertura di ciascuna Regione almeno alla soglia del 75% rappresenti un primo passo importante per iniziare un percorso di riduzione del debito, liberando risorse per lo sviluppo, in primis di occupazione e produttività, creando un circolo virtuoso in grado di ridurre la necessità di spesa assistenziale e, in ultima istanza, di rafforzare la sostenibilità del nostro welfare state. 

Bruno Bernasconi, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

27/11/2023

 
 

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