ESG: non si torna indietro

Il 2024 è stato un anno difficile per i prodotti finanziari ESG e gli investimenti sostenibili, la cui corsa sembrava invece inarrestabile fino a poco tempo fa. Non è però la fine di un grande obiettivo: se, anche alla luce degli attuali scenari geopolitici, un ripensamento delle regole sulla transizione ecologica ed energetica sembra inevitabile, oltre che auspicabile, sarebbe irrealistico ipotizzare un arretramento delle politiche ambientali

Alberto Brambilla

Il 2024 è stato certamente un anno di grandi difficoltà per i prodotti finanziari ESG, il cui sviluppo sembrava inarrestabile, e il corrente anno non sembra quello del recupero. I motivi sono molteplici: l’eccesso di regolamentazione, l’esclusione dall’investibile in tempi troppo ristretti sia per l’economia sia per la società, di prodotti energetici e industriali con particolare riguardo al riscaldamento delle case e all’automotive; l’instabilità geopolitica che ha provocato guerre, a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, e generato un forte bisogno di difesa e quindi di acquisto di armamenti e, infine, ma forse ancora più dirompente, la politica a partire dalle posizioni di molti che ritengono debba prevalere la convenienza economica sulla tutela del pianeta. 

 

La necessità di un diverso approccio sulle ragioni dell’economia

La debacle è iniziata con l’abbandono, anche per “convenienze politiche” e di “raccolta finanziaria”, di alcune tra le più importanti società del risparmio gestito dalle organizzazioni internazionali che riuniscono gruppi finanziari attivi nel contenimento della crisi climatica, quali Climate Action 100+, composta da circa 600 investitori con l’obiettivo di far ridurre alle imprese le emissioni di gas serra, e Nzam formata da 300 gestori di patrimoni volti a sostenere l’obiettivo di zero emissioni di gas serra entro il 2050. Spesso non si è trattato di un abbandono di questi importanti gestori dalla logica ESG ma per operare con strategie interne e minori esposizioni esterne. Peraltro, anche le banche e le Compagnie di Assicurazione hanno le loro organizzazioni Net Zero, rispettivamente NZBA e NZIA, e per il sistema bancario il fallimento del Net Zero Banking Alliancestatunitense - con il ritiro dei principali partner, Citigroup, Bank of America, Wells Fargo, Goldman Sachs e Morgan Stanley - è stato un colpo pesante. Certo, le elezioni americane hanno influito nelle politiche finanziarie e industriali (basta vedere il comportamento delle aziende tecnologiche statunitensi): ad esempio, 11 Stati americani con governatori repubblicani, a partire dal Texas, hanno citato in giudizio BlackRock, Vanguard e State Street (circa 23mila miliardi di dollari gestiti complessivamente) perché avrebbero chiesto un taglio della produzione di carbone; per inciso, il carbone rappresenta oltre il 30% dei consumi mondiali di fossili ma produce oltre il 50% delle emissioni di CO2Tutto questo non significa che le banche stiano abbandonando il tema del clima, più probabilmente sta crescendo il bisogno di un diverso approccio sulle ragioni dell'economia; ad esempio, Morgan Stanley dichiara: “Il nostro obiettivo è quello di contribuire alla decarbonizzazione dell’economia reale fornendo ai nostri clienti la consulenza e i capitali necessari per trasformare i modelli di business e ridurre l’intensità di carbonio”, puntando tuttavia a target di sostenibilità che dovranno essere ridiscussi e resi meno stringenti e più compatibili con le esigenze economiche e occupazionali della popolazione interessata. 

In questo contesto è proseguito il crollo della raccolta netta relativa a OICR e ETF marcatamente ESG che, in base all’indagine di Morningstar relativa al terzo trimestre 2024, si è ridotta a soli 10,3 miliardi di dollari contro i 160 miliardi del quarto trimestre 2021; nello stesso periodo, secondo il portale “Statista”, i principali operatori di mercato da BlackRock a Pictet, Amundi, JPMorgan e altri, hanno registrato nei loro fondi ESG, deflussi di oltre 13mila miliardi di dollari. Anche il lancio di nuovi prodotti finanziari ESG si è ridotto a 57 prodotti contro i circa 300 del 2021. Meno grave pare la situazione dei GSS bond (Green, Social, Sustainability), le obbligazioni sostenibili le cui emissioni nel 2024 sono state di circa mille miliardi di dollari raggiungendo uno stock in circolazione di circa 5.500 miliardi con un mercato prevalentemente europeo e parzialmente asiatico, e dei transition bond, che sono cresciuti soprattutto grazie agli investimenti promossi dal governo giapponese. Tuttavia, come sottolinea S&P, le obbligazioni sostenibili hanno rappresentato circa l’11% del totale globale in calo rispetto al 13% del 2023 con emissioni che si sono ridotte del 6%. 

 

Non è la fine di un grande obiettivo 

Fine di un grande obiettivo? Assolutamente no. Certo, un ripensamento delle regole sulla transizione ecologica ed energetica, alla luce dei fatti evidenziati, è inevitabile e anche auspicabile ma sarebbe assolutamente irrealistico pensare che le politiche ambientali arretrino e si ridimensionino. Anche perché la situazione demografica ed ecologica del pianeta, con il riscaldamento globale che a gennaio 2025 è stato di 1,75 gradi più caldo rispetto al livello preindustriale (il 18esimo mese degli ultimi 19 in cui la temperatura media globale dell'aria è stata di oltre 1,5 gradi in più rispetto al livello preindustriale), è un forte campanello dall’allarme. È vero che non sappiamo (perché ci manca la conoscenza) in una scala da 1 a 10 quanto il cambiamento climatico dipenda da fattori naturali e quanto dall’uomo; quello che però è certo, come sostengono le Nazioni Unite e la maggioranza degli scienziati, è che una parte consistente del problema dipende dall’uomo, dall’abnorme crescita demografica, dagli eccessivi e inutili consumi di massa, dalle tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera, dalla distruzione dell’habitat naturale e delle biodiversità e dal consumo di “1,7 Terre” ogni anno, tanto che abbiamo accumulato oltre 13 anni a debito dal 1973 come ci dice il Global Footprint Network

Quindi se, da un lato, occorre abbandonare i sogni irrealistici promossi dall’Unione Europea sull’elettrificazione delle auto o sulla riduzione delle emissioni “scope 1,2,3” relative al trasporto e alle case, dall’altro, certamente non si ritornerà alle auto inquinanti o alle caldaie a gasolio o gas. Un ripensamento sull’uso del gas come ponte verso le rinnovabili o dei motori endotermici, che potrebbero essere alimentati a biofuel o a idrogeno, sembra indispensabile. Inoltre, nessun governo potrà invertire la lotta al cambiamento climatico anche perché se un tempo non lontano, diciamo 80 anni fa, un’alluvione o un uragano interessava circa due miliardi di terrestri, oggi – e sono passati soli 79 anni  - interessa più di 8,1 miliardi di persone; per vivere alleviamo altrettanti animali mammiferi, ne macelliamo oltre 50 miliardi l’anno, esclusi pesci e molluschi, e facendo un peso specifico per mammifero di circa 50 chilogrammi è come se sulla Terra non fossimo solo 8,1 miliardi di umani ma oltre 33 miliardi di esseri che mangiano, bevono, respirano ed emettono anidride carbonica e altri inquinanti tra cui il metano. Immettiamo in atmosfera oltre 36 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno e molti altri gas. Ce n’è di che riflettere. 

E poi ci sono le guerre e lo scontro tra la visione dell’Occidente democratico (pur con tutti i suoi limiti) e le autocrazie di Cina, Russia, Iran e molti altri Paesi che attraggono le simpatie dei Paesi del Sud globale. In questo contesto l’Europa si scopre disarmata; l’Italia, in caso di invasione, avrebbe munizioni per pochi giorni e quindi la politica propone di destinare almeno il 2% del PIL in armamenti (ma alcuni parlano di 3% o 5%). Escludiamo tutti i fabbricanti di auto non elettriche, di caldaie, di armi, di plastiche e tutte le loro filiere? Forse, è meglio rivedere le direttive del Parlamento europeo e della Commissione (SFDR, tassonomia, CSDR) e quelle ESMA, per renderle più compatibili con la vita delle popolazioni europee se non si vuole una avanzata dei partiti populisti ed estremisti, il che significherebbe davvero un arretramento nella lotta al cambiamento climatico. 

Più che puntare tutto sugli “scope 1,2,3” o sulle citate direttive, sarebbe meglio una visione tipo scope 4 per le emissioni, dove quello che conta è quante emissioni l'azienda, attraverso la sua attività, i suoi prodotti e i suoi servizi, è riuscita a evitare. Tradotto, quanto i prodotti sono meno inquinanti rispetto ad alcuni standard che incrementano nel tempo. E, infine, proprio per quello che si è detto, va ripensata la politica delle esclusioni, mentre l’engagement potrebbe con le nuove regole essere molto rilevante.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

28/5/2026 

 
 

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