Il TFR è davvero una fonte efficiente di finanziamento per le imprese?

Le aziende di minori dimensioni sono spesso poco propense a promuovere la previdenza complementare tra i propri dipendenti. Il TFR, per queste società, viene considerato un importante elemento di finanziamento dell’azienda. Ma è davvero una soluzione efficiente?

Nicola Barbiero

Nei precedenti articoli abbiamo avuto modo di approfondire le sinergie possibili tra fondi pensione e aziende, le possibili opportunità di sviluppo e i vantaggi fiscali previsti dal legislatore a favore delle società che destinano il TFR a un fondo di previdenza complementare o all’INPS (in caso di aziende con più di 50 dipendenti). In questo senso, lo strumento “fondo pensione” diventa un partner flessibile ed efficiente anche per le imprese oltre che per i lavoratori ma, troppo spesso, le prime non riescono a cogliere appieno le opportunità offerte, vuoi perché non pienamente informate vuoi perché “affezionate” al TFR come modalità di finanziamento diretto. Ma il bilancio dell’azienda beneficia di questa scelta?

Cerchiamo di approfondire la questione considerando il tema nel suo complesso: se delle misure compensative si è già detto, ora proviamo ad arricchire il ragionamento includendo il costo che l’azienda deve sostenere per rispondere alle necessità di liquidità con un finanziamento bancario (prima soddisfatto dal TFR).

Nel Rapporto mensile pubblicato a ottobre 2019, ABI evidenzia che il tasso medio sulle nuove operazioni di finanziamento è pari al 1,30% contro il 5,48% rilevato a fine 2007, mentre il tasso medio sul totale dei prestiti (considerando, quindi, anche quelli già erogati) è pari a 2,51%, in diminuzione rispetto ai periodi precedenti e decisamente inferiore rispetto allo stesso valore rilevato a fine 2007 (6,18%). Il confronto rispetto a 12 anni fa è particolarmente interessante in quanto riporta al momento in cui la previdenza complementare conobbe il suo apice di interesse: in quell'anno il TFR mantenuto in azienda è stato rivalutato al 3,48%. Un valore di finanziamento decisamente molto competitivo rispetto a quello offerto dal canale bancario (6,18%); all’epoca le aziende a stento (giustamente, dati alla mano) potevano sostituire il TFR con un finanziamento bancario. Ma dopo 12 anni questo ragionamento è ancora valido? Nel 2018 il tasso di rivalutazione del TFR lordo (il valore che la società è tenuta a corrispondere) è stato del 2,24% e il valore rolling degli ultimi 12 mesi si attesta poco sopra 1,50% (1,57% per la precisione); valori diversi rispetto a quelli rilevati nel 2007 e molto più vicini al costo del finanziamento bancario (2,51%).

Ora ipotizziamo dunque di essere un’azienda con 20 dipendenti nel proprio organico con stipendio lordo medio pari a 25.000 euro (semplificazioni che ci aiutano in questo esempio, ma i cui dati di partenza possono essere agevolmente variati).

La prima opzione, la strada più seguita a oggi, è quella di tenere il TFR in azienda (nell'esempio, un importo di circa 34.500 euro all’anno riconoscendo il tasso di rivalutazione individuato dalla legge) e, sapendo che il tasso di turnover medio per aziende di questa dimensione è pari al 6,6% (si veda il rapporto ISTAT sul Mercato del lavoro) con una permanenza media di poco superiore a 15 anni, l’azienda ha rilevato nel 2018 un costo a bilancio per rivalutazione del TFR pari a circa 11.600 euro (il 2,24% su 15 anni di TFR). Qualora, al contrario, tutti i dipendenti fossero iscritti a un fondo pensione, l’azienda avrebbe contabilizzato un provento di circa 2.400 euro generato dalle misure compensative (senza considerare la mancata rivalutazione del TFR per non distorcere il paragone) e costi per interessi pari a circa 13.000 euro (2,51% su 15 anni di TFR), con un costo netto di 10.600 euro, anziché 11.600, che dovrebbe portare a preferire il versamento del TFR a un fondo pensione al suo mantenimento in azienda. 

Queste considerazioni possono aprire a due obiezioni:

  1. se i dipendenti si iscrivono a un fondo pensione negoziale l’azienda fa fronte adun maggiore costo legato al contributo azienda previsto da contratto;
  2. le aziende possono avere un costo del finanziamento maggiore rispetto al 2,51% medio individuato da ABI. 

Proviamo ad analizzarle entrambe. Il contributo azienda, lo sappiamo, è un elemento definito dalle parti sociali a livello contrattuale e negoziato per assecondare le necessità di entrambi gli attori: i lavoratori dipendenti possono godere di un aumento della propria retribuzione e, allo stesso tempo, le aziende limitano l’aumento del costo del lavoro rispetto a quanto avverrebbe con un “normale” aumento contrattale in busta paga. Ciò permette, anche per questa via, alle aziende di vedere il fondo pensione come strumento che permette loro di beneficiare di un vantaggio economico (minori costi).

Per quanto riguarda invece il secondo punto evidenziato, se c’è il rischio che le aziende abbiano un costo di finanziamento superiore alla media (in relazione alla specifica rischiosità e dell’andamento del business), è altrettanto vero che nel momento in cui il dipendente esce dall’azienda (dopo 15 anni di lavoro), quest'ultima si troverà a chiedere un finanziamento bancario alle stesse condizioni (tasso) senza usufruire delle misure compensative previste dalla legge perdendo quei 2.400 euro che, in 15 anni, si traducono in 36.000 euro. 

Arriviamo così a dare risposta alla domanda iniziale: il TFR è una fonte di finanziamento efficiente? Sempre meno spesso: le condizioni di mercato sono profondamente cambiate rispetto a quanto si vedeva nel 2007 e le risposte si modificano di conseguenza. Ragione per la quale diventa fondamentale considerare anche questi elementi nel corso del proprie valutazioni fiscali e finanziarie.  

Nicola Barbiero, CFO Solidarietà Veneto Fondo Pensione 

21/11/2019 

 
 
 

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