Siamo arrivati al massimo occupazionale?

Gli ultimi dati Istat sull'occupazione sono molto positivi: indubbiamente una buona notizia, benché uno sguardo più approfondito alle statistiche confermi diversi elementi di criticità, più strutturali che occasionali. Dei veri e propri bug che incombono sullo stato di salute del nostro mercato del lavoro 

Alberto Brambilla e Claudio Negro

Analizzando gli indicatori dell’Istat sul mercato del lavoro emerge che senza interventi efficaci sul mismatch, il che implica una forte revisione della formazione professionale e una riduzione degli incentivi al “non lavoro” (NASpI, ISEE, assistenze varie), il tetto occupazionale potrebbe essere stato raggiunto.

Certo, i dati diffusi dall’Istituto di Statistica sull’occupazione del mese di luglio  e di agosto sono molto positivi. Cresce per l’ennesima volta il numero degli occupati e diminuisce quello dei disoccupati. Anche le percentuali sono da record, 62,3% il tasso di occupazione totale e 6,2% quello di disoccupazione (mai così basso dalla crisi del 2008). Le dimensioni della crescita sono fuori discussione: in termini tendenziali, rispetto a 12 mesi fa, il numero di occupati è aumentato di 494mila unità (+0,8% il tasso di occupazione).

Fin qui le buone notizie. Entrando maggiormente nel dettaglio, si notano tuttavia alcune contraddizioni che non essere occasionali ma strutturali, e in relativa crescita: potenzialmente, dei veri e propri bug. Il primo dato evidente, guardando al mese di luglio, è che il numero degli occupati aumenta solo per la crescita dei lavoratori autonomi, mentre i dipendenti calano (-18mila unità) per il secondo mese consecutivo e, per la prima volta dopo due anni, diminuiscono i lavoratori a tempo indeterminato. In sé non è un indice di grave preoccupazione, ma si colloca in un contesto già complicato. Un contesto nel quale, per tre mesi, l’indice di fiducia delle imprese si colloca in terreno negativo: il PMI, che registra le previsioni di acquisti da parte dei manager, è sceso di 2 punti; l’indice della produzione industriale del secondo trimestre è sceso di 1,6 punti soprattutto nel comparto manifatturiero. Gli istituti di ricerca prevedono una stabilizzazione dell’economia dell’area Euro (l’IFO addirittura una stagnazione della Germania) e, anche per l’Italia, la fine della crescita impetuosa che ha caratterizzato gli anni del dopo COVID.

Un rallentamento “normale” ma che, per l’Italia, rappresenta un problema perché dopo più di due anni di crescita il tasso di occupazione complessivo è al 62,3% (con una crescita di circa il 2% e si fermerà più o meno lì viste le previsioni) confermando l’impietoso confronto con l’Europa: il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni si è attestato al 66,3%, restando lontano di circa  10 punti dalla media UE (75,4%); peggio va per l’occupazione femminile perché tra i 20 e i 64 anni lavora solo il 56,5% delle donne, a fronte del 70,2% in media dell’UE, e il divario tra donne e uomini è quasi il doppio della media europea. L’Italia con il 56,5% di tasso di occupazione delle donne tra i 20 e i 64 anni resta lontana dalla Germania (77,4%) e dalla Francia (71,7%) ma anche dalla Spagna (65,7%). Il divario nell'occupazione femminile in Italia è trainato dal Sud: tra i 20 e i 64 anni lavora nel Mezzogiorno il 39% delle donne a fronte del 67% medio al Nord (62,6% al Centro). Per non parlare dei NEET di cui deteniamo, o quasi, il record con oltre 2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano.

Un ulteriore dato di dettaglio può delineare meglio perché la situazione sia preoccupante: il tasso di disoccupazione così festosamente basso è in realtà determinato dal fatto che sempre meno persone cercano lavoro. E non perché siano già occupate, ma perché sono scoraggiate spesso senza un reale motivo o non interessate a trovare occupazione. Su 38 milioni circa di italiani in età da lavoro, dopo il conclamato record, ne lavora solo circa 24 milioni: e gli altri? Nessuna economia sviluppata ha un tasso così alto di inattivi. Cattiva volontà? Pancia piena e spesso cervello esausto? Anche ma soprattutto è il governo (l’attuale e quelli degli ultimi 10/15 anni) che crea una serie di incentivi a evitare il lavoro: infatti, meno redditi dichiari e maggiori sono le assistenze di Stato, Regioni, Comuni, e altri enti locali; viceversa, più redditi dichiari e più la doppia, tripla progressività, penalizza il lavoro. Basti pensare all’AUUF che il governo del merito pensa di togliere a chi non compila l’ISEE o ha redditi sopra i 50-60 mila euro. Per una famiglia con ISEE basso è sconveniente accettare un lavoro, perché dichiarando di più, magari il coniuge a carico, si possono perdere benefici anche di circa 1.000 euro mese. Perché lavorare se lo Stato alla fine della tua vita, pur non avendo mai versato contributi, ti dà 620 euro al mese, la social card, il contributo affitto, la sanità gratis, e così via? Mentre quelli che hanno sempre dichiarato redditi medi (in Italia si pensa che con 60mila euro lordi si sia ricchi ma al netto di tasse, contributi, rette scolastiche, sei più povero di uno che guadagna 25mila euro) vengono penalizzati. È il caso dei pensionati con prestazioni oltre 6 volte il minimo (poco più di 3mila euro lordi e 2.100 euro netti) cui il ministro Giorgetti ha ridotto in tre anni del 10% il potere reale delle pensioni (e perderanno un altro 4% nei prossimi 10 anni, sempre che l’inflazione resti sotto il 2%) avendo modificato l'indicizzazione all’inflazione.

Insomma, tra penalizzazioni al lavoro vero, inique flat tax e assistenze si è creato quel perverso intreccio che ci pone ultimi per occupazione, sviluppo e produttività e primi per debito ed evasione fiscale. A questo vero e proprio bug italico si combinano l’esaurirsi, entro la fine di settembre, del grande boom occupazionale legato al turismo e alla stagionalità, la crisi della manifattura legata anche al settore automotive e all’industria tedesca i cui segnali (10mila nuovi cassintegrati a breve) sull’occupazione dipendente iniziano ad arrivare. Siamo arrivati al “tetto occupazionale”, con potenziale riduzione nei versamenti contributivi e fiscali (altro che tesoretto), lasciando aperte le grandi questioni del mismatch tra domanda e offerta di lavoro e dei poco lusinghieri risultati dei progetti GOL e Garanzia Giovani.

L’unica certezza è l’aumento del debito causato dalle decontribuzioni e agevolazioni che drogano un mercato che vivacchia (come quello tedesco) senza investire e con scarsa produttività. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e
Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 7/10/2024 

 
 

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