Fringe benefit, quando non avere figli diventa una "colpa"

Davvero la nuova norma sui fringe benefit riuscirà a sostenere la natalità? Un aumento (temporaneo), quello a 3.000 euro ma solo per chi ha figli a carico, discusso, discutibile e non privo di limiti tecnici: chiaro l'intento politico, tiepida l'accoglienza del settore

Lorenzo Vaiani

Sulle gravi e profonde criticità legate alla nuova norma sui fringe benefit - innalzamento della soglia dai circa 258 euro ai 3.000, ma solo se si hanno figli a carico - si sono espressi molti e autorevoli esperti del settore evidenziandone a più riprese i potenziali limiti, su tutti quello appunto di aver limitato il perimetro di potenziale erogazione in modo discriminatorio ai soli lavoratori con figli a carico:

- in primis, l’affermazione del welfare aziendale come solo strumento detassato di sostegno al reddito, condizione che lo esporrebbe, negli anni, al rientro nel reddito da lavoro, essendo questa una funzione economica e non sociale, con il concreto rischio di fagocitare buona parte delle misure di cui al comma 2 dell’art. 51 del TUIR (tra cui assistenza sanitaria, buoni pasto, misure per la scuola etc…) nel nuovo comma 3 in ragione della maggiore fruibilità dello strumento; 

- l’allocazione di un budget come questo può rafforzare quella deriva consumistica che, in molti e da ormai diverso tempo, viene posta all’attenzione del settore, già da ben prima che si verificassero gli incrementi dei prezzi che hanno caratterizzato l’ultimo periodo. Allocazione vista con estremo interesse dagli emettitori e dal mondo dell’e-commerce, in grado di voucherizzare velocemente i propri servizi, ma che proprio per via dell’intrinseca “agilità” di questi strumenti, rischia di stimolarne l’utilizzo più sulla base dell’impulso che in base a riflessioni ponderate rispetto alle reali necessità della vita, personale o dei propri familiari;

- e, in conseguenza dei primi due punti, si arriverebbe alla concreta possibilità di una perdita di interesse da parte del mondo delle imprese per la progettazione di articolati piani di welfare aziendale, laddove facilmente sostituibili da soluzioni come voucher e gift card ora associabili anche a un rilevante importo complessivo. Commettendo così il grave errore di credere di poter dare risposte veloci e al tempo stesso efficaci a bisogni, invece, molto complessi, e di comprimere il welfare aziendale all’interno di una soluzione semplice (se non semplicistica) affidandolo a una misura una tantum che, come tale, è di per sé disallineata rispetto alla caratteristica persistenza e modificabilità nel tempo, dei bisogni delle persone (lungo il cosiddetto welfare life cycle individuale). 

A tal proposito, infatti, è bene ricordare come risulti fondamentale “la finalizzazione del welfare aziendale” affinché venga sostenuto sempre più il suo sviluppo come sostegno complementare e integrativo del welfare pubblico.  Ben vengano i servizi a favore di tempo libero e benessere, ma risulta imprescindibile prevedere dei “paletti” affinché questi non prendano il sopravvento su prestazioni di natura sociale (previdenza complementare, assistenza sanitaria integrativa, LTC e assicurazioni sociali), familiare (libri di testo, istruzione, vacanze studio estive per i figli) o di sostegno più o meno diretto alla professione stessa (trasporti, corsi di aggiornamento etc).

Fatte queste premesse e venendo al caso concreto, di quante persone (escluse) si sta parlando?

In base ai dati Istat, a fine 2022, in Italia, gli occupati dipendenti (settore pubblico e privato) erano poco più di 18 milioni e 100mila; di questi, coloro i quali non hanno figli sono poco meno del 40%, corrispondenti all’incirca a 7 milioni di persone. Un numero considerevole, e che non avrà diritto a ricevere un cospicuo ammontare (la stessa Presidente del Consiglio Giorgia Maloni ha definito la somma “un’ulteriore tredicesima”) per il solo fatto di aver scelto o di non poter avere figli.

Così, uno strumento che può essere un valido alleato nella famigerata lotta al cuneo fiscale - più che al welfare aziendale che, per sua intrinseca natura, dovrebbe prevedere una strutturazione e una pianificazione più complessa e articolata di una semplice erogazione di danaro una tantum - diventa un espediente (inutile) per favorire e incentivare la natalità, come se a una giovane coppia che sta valutando se mettere su famiglia il fatto di sapere che per quest’anno è stato erogato un generoso bonus che, tuttavia, non si sa se verrà prorogato anche per i prossimi, possa spostare l’ago della bilancia. Inoltre, e non è una cosa di poco conto, occorre tenere a mente che si tratta di una libera scelta del datore di lavoro l’attribuzione del fringe benefit ai dipendenti; quindi, non è per nulla scontato che tale importo venga erogato a tutti, anzi. 

In Corea del Sud, dove la situazione dell’invecchiamento della popolazione è ancora più marcata che da noi, e dove il numero di figli per donna è oramai stabilmente sotto l’1, sono stati investiti in poco più di tre lustri oltre 200 miliardi di dollari e i risultati, per stessa ammissione del Primo Ministro, sono stati marginali. Può l'Italia davvero essere convinta che, con 3.000 euro "buttati lì", si possa ottenere un qualche risultato in tal senso?!

E poi restano da chiarire alcuni elementi “tecnici”, come sono stati chiamati da qualcuno, di non poco conto: al fringe benefit da 3.000 euro, che non costituisce reddito, verrà applicata una qualche aliquota contributiva? Per il bonus carburanti lo scorso autunno venne inizialmente prevista e poi con un intervento-toppa rimossa…. Ancora, all’interno dello stesso nucleo familiare, il fringe potrà essere ricevuto da ambedue i genitori? Oppure, se verrà prevista come per lo scorso anno la non cumulabilità e ne avrà diritto solo uno dei due, come fare a evitare una doppia emissione? 

A tutto ciò occorre aggiungere, come ben spiegato da Emmanuele Massagli, presidente di AIWA (Associazione Italiana Welfare Aziendale), che le imprese di medie e grandi dimensione con stringenti policy aziendali di antidiscriminazione si troveranno in grave difficoltà nell’elargire tali somme di denaro e chem con ogni probabilità, per evitare qualsivoglia possibile controversia, eviteranno di farlo. A questo proposito occorre poi ricordare così, giusto per diletto accademico, che teoricamente anche la nostra Costituzione prevede che non possano essere fatte discriminazioni di carattere sociale; pertanto, non sarebbero del tutto da escludere potenziali profili di incostituzionalità per come è stata impostata la norma.

Parrebbe saggio, dunque, tornare alla precedente impostazione prevista dal governo Draghi: incremento dell’esigua somma di 258 euro a 600 per tutti (volendo ci si potrebbe spingere ai 1.000 ma, di certo, non oltre) e prevedere poi, in aggiunta a questi, appositi voucher, tessere ecc.. specificamente pensate per i bisogni di una famiglia con figli a carico. Tenendo sempre bene a mente che alcuni problemi e criticità non si risolvono facendo piovere soldi. Un esempio su tutti, se i posti negli asili nido scarseggiano non è dando soldi ai genitori (o futuri tali) che si convincono le famiglie ad avvalersi dello strumento; molto più semplicemente, si rischia di genera un aumento dei costi di accesso al servizio che annulla l’effetto dell’elargizione comportando, dunque, uno spreco di risorse. 

Lorenzo Vaiani, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

13/5/2023

 
 
 

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