I salari italiani sono davvero più bassi di quelli europei (e perché)?

Dati alla mano, i salari medi italiani sono più bassi rispetto ai livelli europei e soprattutto poco diversificati per professione, età e comparto: tra le ragioni, un sistema di contrattazione collettiva molto accentrato e fin troppo propenso all'egualitarismo, persino a discapito di mercato e produttività

Claudio Negro

Sta prendendo piede, certamente influenzato dal mantra sindacale ma ora corroborato da più autorevoli ed oggettivi interventi istituzionali (Istat e INPS), il racconto di una società che progressivamente si impoverisce e aumenta al suo interno le diseguaglianze di reddito, a causa soprattutto di salari troppo bassi. A dire il vero si tratta di un’argomentazione piuttosto recente, perché fino a poco tempo fa la narrazione era che tra lo Statuto dei Lavoratori e i CCNL la tutela fosse eccellente! Per valutarne l’autenticità vale la pena di valutare qualche dato.

Eurostat ci dice che la paga oraria media lorda nel 2021 è stata di 15,55 euro contro i 16,9 euro dell’area Euro, i 19,66 della Germania e i 18,01 della Francia. La paga mensile lorda lo stesso anno è stata 2.520 euro in Italia, nell’area Euro di 2.825 euro, in Germania di 3.349 e in Francia di 2.895. Quella annua è stari pari a 34.792 euro in Italia, 38.559 euro nell'area Euro,  44.933 in Germania, 37.956 in Francia. Secondo Job Pricing, che prende in considerazione i dati OCSE, nel 2020 i salari italiani erano al 25esimo posto su 36 Paesi, pari all’80% della retribuzione media OCSE. Con la premessa che tutti i dati precedenti sono espressi in parità di potere d’acquisto, da rimarcare che la differenza tra la retribuzione contrattuale e quella di fatto è piuttosto bassa: 2,3% nel 2020. 

I salari sono dunque mediamente bassi, ma vale la pena  scomporli per aree di analisi per cercare di capirne le cause. Innanzitutto, nonostante i luoghi comuni pauperisti la differenza tra salari alti e bassi non è affatto elevata, anzi è tra le più contenute in Europa: i salari “bassi”, ossia inferiori a 2/3 del salario mediano, sono soltanto il 3,7% del totale, il più basso nell’UE, mentre quelli “alti”, ossia superiori alla mediana di una volta e mezzo, sono il 19%, valore più ridotto dopo quello fatto registrare dalla Germania (18,7%). Il grosso dei salari si distribuisce abbastanza uniformemente in una fascia centrale. Allineato a questo dato è quello che relativo al differenziale di retribuzione per livello d’istruzione: stando ai valori Eurostat, la differenza di salario tra i livelli d’istruzione più bassi (primaria e/o secondaria inferiore) e più alti (terziaria e superiore) in Italia si colloca tra i 27.806 e i 44.104 euro annui; in Germania trai i 27.005 e i 68.144; in Francia 28.115 e 47.696 euro; nell’area Euro 25.518 e 51.200. Ancora una volta troviamo che le retribuzioni “basse” sono più alte della media europea, ma quelle “alte” sono più basse. Pare emergere sorprendentemente un quadro in cui i salari sono mediamente bassi soprattutto per colpa di quelli “alti”, mentre quelli più bassi hanno una buona performance. 

Anche dal punto di vista della distribuzione per classi di età le retribuzioni italiane mostrano una curva più schiacciata rispetto a quelle di Germania e Francia: la crescita tra i salari dei <30 anni e dei >50 è del 52% nel nostro Paese, del 58% in Germania e 59% in Francia. Mentre per quanto concerne il gender gap ci collochiamo a metà classifica, in buona compagnia di Norvegia e Finlandia con un indice del 16%. Importante poi esaminare come cambia il salario a seconda del settore produttivo: escludendo l’agricoltura e i servizi familiari, difficili da pesare perché sconfinano nel lavoro sommerso, i comparti in cui la retribuzione (di fatto) è più bassa sono edilizia (26.482 euro annui) e servizi (28.749). Ma, a parte il comparto finanza/credito, anche i comparti industriali non sono molto più alti: secondo Job Pricing, 32.000 euro annui per l’industria di processo e 30.486 per quella manifatturiera. Molto istruttiva la comparazione con i dati europei: il delta tra la retribuzione nell’industria di processo (normalmente la più alta esclusi i servizi finanziari) e i servizi, esclusa la Pubblica Amministrazione, è del 23,5% in Germania, del 13% in Francia, del 7% in Italia e del 14,5% nell’area Euro (dati Eurostat). Questo schiacciamento del dato italiano è dovuto essenzialmente a un livello relativamente abbastanza alto della retribuzione nei servizi ("soltanto" -8,7% rispetto all'area Euro, -7,5% rispetto alla Francia, -24% rispetto alla Germania) e piuttosto basso per l’industria di processo (-17% nel confronto con l’area Euro, -43,8% con la Germania, -14,7% con la Francia). Dati che fanno riferimento alla retribuzione di fatto, che comprende le voci riconducibili ai CCNL più elementi contrattati in azienda (o più raramente sul territorio): da notare che l’ammontare degli elementi aggiuntivi è mediamente piuttosto esiguo, solo il 2,3% (11% per i dirigenti, 4,5% per i quadri).

Tutto questo induce una riflessione circa la copertura quantitativa e qualitativa dei CCNL. Innanzitutto, come segnala il Bollettino ADAPT sulla base di dati CNEL e INPS, dei 900 e rotti contratti depositati nell’archivio INPS, meno della metà è realmente applicata. Si tratta di quelli sottoscritti da CGIL, CISL UIL e più occasionalmente da qualche sindacato autonomo: questi contratti coprono circa il 97% dei lavoratori cui viene applicato un contratto. Scarsissima quindi l’influenza, anche statistica, dei “contratti pirata”. Vi sono tuttavia moltissimi lavoratori (milioni, dice il luogo comune) che lavorano senza riferimento ad alcuna contrattazione collettiva. In realtà, come dimostra ADAPT, basta prendere in considerazione gli UNIEMENS presentati all’INPS, nei quali va riportato il codice del CCNL applicato: escludendo i dipendenti della Pubblica Amministrazione, il cui trattamento contrattuale è ovviamente noto, i lavoratori del settore privato sono 13.643.659, e soltanto in 729.544 casi l’UNIEMENS non viene indicato il CCNL (dati 2021). Difficile dire quanti siano semplicemente i casi di datori di lavoro che dimenticano di mettere il codice, e quanti i lavoratori cui non viene applicato un CCNL ma si ricorre ad un accordo diretto col datore (cosa diversa, comunque, dal lavoro sommerso). In ogni caso si può dire, probabilmente esagerando, che tra i 500 e 700mila dipendenti lavorino senza un CCNL, quindi tra i 3 e il 5%. In definitiva la copertura contrattuale tutela almeno 12.900.000 dipendenti privati, più 3.200.000 dipendenti pubblici; restano fuori 950.000 lavoratori dell’agricoltura e circa 800.000 lavoratori domestici, che non vengono considerati nella statistica perché hanno trattamenti contrattuali di impianto molto diverso dai CCNL tradizionali, e spesso applicati meno rigorosamente.

In conclusione, la contrattazione collettiva in Italia è largamente applicata, con quote non lontane dal 100%. Dunque i dati sopra riportati, che si rifanno appunto alla contrattazione collettiva, forniscono un quadro piuttosto preciso del trattamento salariale esistente in Italia. Dal punto di vista qualitativo è inevitabile notare come il sistema della contrattazione collettiva nazionale colga in modo efficace l’obiettivo che la filosofia sindacale corrente le attribuisce: garantire i lavoratori di bassa professionalità e delle piccole imprese, che non hanno la forza negoziale per contrattare in azienda. Infatti, come visto, i livelli retributivi italiani di fascia inferiore sono mediamente alti in Europa e meno distanti della media europea rispetto ai livelli alti. In altre parole, l’assoluta preponderanza del Contratto Nazionale difende i più deboli ma schiaccia i meno deboli, comprimendo la media salariale. E questa caratteristica che torna peraltro molto spesso nella retorica sindacale (“stare con gli ultimi”) determina la peculiarità del nostro sistema retributivo.

Vale anche la pena di soffermarsi sul cosiddetto cuneo fiscale-contributivo, che definisce la retribuzione netta spendibile per i lavoratori. Un recentissima ricerca di Università Cattolica ci dice che il cuneo fiscale-contributivo mediamente vale il 46% del costo del lavoro, per cui una retribuzione di 23.948 euro in realtà corrisponde a un reddito lordo di 44.779 euro. Definisco questa cifra, che in realtà è il costo lavoro per l’azienda, come reddito lordo perché nel cosiddetto cuneo sono presenti imposte a carico del lavoratore (mediamente 15,3%), contributi a carico del lavoratore (circa 9%) e a carico del datore (circa 24%): questi ultimi finanziano per la gran parte la previdenza, che possiamo tutto sommato considerare come una sorta di retribuzione differita, e altre prestazioni di tipo assicurativo: Cassa Integrazione, Indennità di Disoccupazione, Malattia, Maternità, Assegni Familiari, ecc. In sostanza, poco meno della metà del reddito generato a favore del lavoratore finanzia assicurazioni e previdenza. Non è una situazione comune perché in Germania i contributi pensionistici, tra carico lavoratore e carico impresa, sono del 16%, e ovviamente generano pensioni molto più basse di quelle italiane. Per cui tutti i lavoratori tedeschi si pagano a parte una previdenza integrativa. Non solo: nel cuneo fiscale dei lavoratori tedeschi è compreso anche un 14% che va a finanziare la sanità pubblica; in Italia il lavoratore non la paga, perché è a carico della fiscalità generale. Opportuno qui notare che per buona parte delle retribuzioni (almeno quelle inferiori a 15.000 euro annui, più di 8 milioni) il prelievo fiscale viene annullato grazie a detassazioni e detrazioni fiscali in favore delle fasce più deboli. In sostanza, il cuneo fiscale al livello delle retribuzioni europee più alte comprime il salario netto medio portandolo al di sotto della media dell’area Euro di circa 900 euro annui. Si tratta di una scelta, forse mai assunta programmaticamente, per cui viene privilegiata la finalità assicurativo-previdenziale nella retribuzione. 

Il peso del cuneo non è sufficiente tuttavia a spiegare lo schiacciamento sui valori bassi delle retribuzioni italiane. Un’ altra causa è da ricercarsi in una curva delle professionalità presenti tra gli occupati che in Italia tende al piatto, con prevalenza, rispetto ai partner europei, di lavoro scarsamente specializzato: in Italia il profilo più presente è quello delle professioni manuali qualificate, mentre in Germania è quello delle professioni tecniche intermedie, in Francia e nell’area Euro è quello delle professioni intellettuali e scientifiche. L’Italia è anche il Paese con la più alta percentuale di professioni non qualificate (13% contro una media Area Euro del 9,9% - dati Eurostat). Ovviamente, la parametrazione dei salari sulla base di questa scala determina una media retributiva bassa.

Ma vi sono anche ragioni intrinseche alla struttura produttiva, in particolare alla produttività non solo del lavoro, ma di tutti i fattori che la determinano. Per un quadro più preciso, vale la pena fare un paio di raffronti tra la performance italiana e quella dei nostri vicini europei: il PIL prodotto per ora lavorata in Italia è pari a 54,2 euro, contro i 60,5 euro dell’Area Euro, i 67,1 euro della Francia e 67,6 della Francia. Il Pil pro capite annuo (per addetto) è di 41.995 euro in Italia, di 47.133 euro per l’Area Euro, 46.691 in Francia e 54.884 in Germania. Il nesso tra produttività retribuzione è visto con molto fastidio da un po’ di sindacalisti, evidentemente convinti che i livelli salariali li debba decidere la politica e non il mercato: pensare che circa 45 anni fa il povero Lama ammoniva che il salario non è “variabile indipendente”, come allora pensavano i precursori di Landini e dei suoi amici… Del resto stiamo vedendo che proprio in questi giorni di salario il sindacato non discute con le imprese ma con il governo, e gli aumenti che rivendica non sono in relazione a una contrattazione sulla ripartizione degli utili ma a interventi fiscali e parafiscali. Un vecchio retaggio culturale: se col padrone non la si sfanga ci si rivolge a "Mamma Stato".

In definitiva prendiamo atto che in Italia la gran maggioranza dei lavoratori è tutelata dai CCNL, ma che i salari medi contrattuali sono bassi rispetto ai livelli europei, poco diversificati per professione, età e comparto, con le fasce base più allineate ai livelli europei e quelle alte molto meno allineate. Un sistema salariale un po’ povero e propenso all’egualitarismo, più inteso a finanziare le assicurazioni sociali che la capacità di spesa, con difficoltà a stimolare-beneficiare la produttività a causa di un modello di contrattazione collettiva molto accentrato e imperniato sulle fasce più deboli.

Non si può però trascurare come il problema dei working poor sia in parte sovrapponibile a quello del lavoro sommerso e coincide in buona parte anche con la diffusione del part-time e con il lavoro non continuo.  

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff
e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 
     

2/8/2022

 
 

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