Numeri e "colpe" della disoccupazione giovanile italiana

Se i dati su contratti e salari suggeriscono che i giovani lavoratori italiani non sono trattati peggio dei loro coetanei europei, le statistiche su NEET e mismatch evidenziano un problema di occupazione giovanile: formazione professionale e politiche attive le principali cause 

Claudio Negro

La questione dell’occupazione giovanile è gettonatissima sui social, ma se vogliamo parlarne senza sceneggiate è opportuno guardare qualche numero, e fare qualche ragionamento.

 

I numeri dell'occupazione giovanile in Italia 

In primissimo luogo, le cifre della disoccupazione, che, ricordiamo, indicano quanti giovani cercano attivamente lavoro senza trovarlo: in Italia, nel 2021, erano il 9,5% della popolazione in età da lavoro, contro il 3,6% della Germania, il 7,9% della Francia, il 7,7% dell’area Euro. In generale nell’Unione Europea solo Spagna e Grecia sono messe peggio di noi. Tuttavia, scendendo nel dettaglio dell’occupazione giovanile esistente, si scopre qualcosa di interessante: nella fascia 15-24 anni il 23,9% degli occupati è sottoposto al part-time, ma in Danimarca sono il 45%, in Germania il 24%, in Olanda il 54% e nell’area Euro il 25%. Da notare anche il dato sui contratti a termine: in Italia il 61% dei giovani tra 15 e 24 anni è occupato con contratto a tempo determinato. Valore in verità non lontanissimo da quello francese (56,1%) svizzero (54%) e addirittura inferiore a quello olandese (68%), a riprova di una condizione largamente diffusa, per quella classe di età, in tutta Europa e non peculiarmente  italiana.

Piuttosto dibattuto anche il fenomeno per cui ai giovani vengono inizialmente offerti posti di lavoro a basso contenuto professionale. Anche in questo caso si tratta di una tendenza sì veritiera ma non tipicamente italiana. Anzi, se si guarda ai due Paesi più facilmente paragonabili - anche per popolazione - all’Italia, si può notare che i giovani tra 15 e 24 anni sono occupati in professioni “elementari” (dati 2021) sono 148mila in Italia, 149mila in Germania, e 208mila in Francia. Un altro profilo professionale piuttosto basso è quello dei sales services: in Italia 310mila gli addetti, in Francia 333mila, in Germania 375mila. In buona sostanza, i giovani italiani non sono più sottoccupati dei coetanei europei. Tuttavia, sono meno qualificati: sempre nella fascia 15-24 anni in Italia hanno concluso la secondaria superiore 1.612.000 lavoratori, contro i 2.280.000 della Francia e i 4.324.000 della Germania; sono laureati 627.000 italiani, 2.391.000 francesi e 1.696.000 tedeschi.

Alto invece il numero dei giovani italiani 15-24 anni che avviano un’attività autonoma: 99.200 in Italia contro 85.500 della Francia e 74.800 della Germania (dati aggiornati al primo quadrimestre 2022). Il che però non è di per sé indice di una particolare propensione all’imprenditorialità ma potrebbe essere anzi il segnale di un diffuso utilizzo del rapporto di lavoro autonomo da parte delle imprese per aggirare vincoli e costi del lavoro dipendente.

 

Le retribuzioni dei giovani nel nostro Paese 

Sorprendentemente, le retribuzioni dei giovani del nostro Paese non sono da "fame": nella fascia under 30 per un full timer la retribuzione media lorda annua espressa in PPS (Parità di Potere d’Acquisto) è di 25.123 euro (dato Eurostat 2018); in Francia è di 23.434 euro, in Germania 30.187, in UK 25.132 , in Olanda 28.518 euro. I giovani italiani che percepiscono un salario povero (cioè inferiore ai 2/3 del salario mediano nazionale) sono il 15,94% del totale, in Francia il 15,85%, in Germania il 32% e in Olanda il 45% (in questi casi è determinante l’uso intensivo del part-time); nell’area Euro il dato ammonta al 28%. La retribuzione oraria espressa in PPS per i lavoratori under 30 è di 10,53 euro in Italia, 11,83 euro in Francia, 12,74 in Germania, 10,02 in Olanda e 11.8  per l’area Euro.

Recentemente ha avuto una certa notorietà la notizia che le retribuzioni aumentano al crescere dell’anzianità. Trattasi di un'evidente ovvietà. A parte il fatto che gli stessi CCNL premiavano fino a poco tempo fa l’anzianità aziendale (e in alcuni casi lo fanno ancora) è naturale che le imprese privilegino, in linea di massima e a parità di profilo professionale, l’esperienza lavorativa. Non è peraltro un fenomeno italiano, come evidenziano i dati Eurostat: prendendo in considerazione tre classi di età (<30 anni, 30-50 e >50), nell’area euro il rapporto tra la seconda classe e la prima è pari a un incremento di 138 vs. 100, in Germania di 153 vs. 100, in Francia di 140 e in Italia di 132. Il nostro Paese risulta in linea con la realtà europea e addirittura ai margini inferiori per incremento dei salari in relazione all’età.

Non sono disponibili dati sui tirocini extracurricolari che comunque esistono, sia pure regolamentati in modi molto diversi, in tutta l’Unione Europea. Altresì non esistono, ovviamente, dati attendibili sul lavoro nero o grigio, che certamente coinvolge un numero significativo di giovani, probabilmente in misura superiore a quella dei Paesi UE di maggiore industrializzazione: l'entità del fenomeno non dovrebbe comunque essere verosimilmente tale da determinare un differenziale decisivo sul complesso dell’occupazione giovanile.

 

NEET e mismatch: le criticità del contesto italiano 

Nonostante questi dati dimostrino come le condizioni di lavoro offerte dal mercato ai giovani italiani siano del tutto simili a quelle dei giovani europei, l'Italia si differenzia nettamente per la partecipazione dei giovani al mercato del lavoro: la percentuale di NEET (Not in Employment,  Education or Training) tra i 15 e 29 anni è del 29,8%. Nell’area Euro è pari al 16,4% della popolazione di questa fascia d’età, in Germania al 14,6%, in Francia al 17,4% e perfino in Spagna e Grecia è inferiore (18,4% e 16,5%) al nostro Paese. D’altra parte, questo dato ha riscontro nell’analisi condotta da Eurostat sul labour slack, che dimostra come l’Italia potrebbe incrementare le forze di lavoro (la somma di chi lavora e di chi cerca lavoro) di quasi il 12%: un valore enormemente superiore a quello degli altri Paesi europei. Basti pensare che la seconda in graduatoria è l’Irlanda, con poco più del 6%, mentre la Francia e la Germania stanno attorno al 4%).

Questi numeri si riferiscono al totale della popolazione in età da lavoro, ma è evidente la coincidenza con quelli riferiti alla fascia più giovane. In sostanza, il fenomeno italiano dei NEET è semplicemente il manifestarsi in quella determinata fascia di età di una propensione a fuggire dal mercato del lavoro che è comune alla società italiana. Occorre, per verità, dire che è molto probabile che una quota consistente di NEET coincida con quote di lavoro nero, e ancor più di lavoro “grigio” (e questa è probabilmente una caratteristica “tutta italiana”) ma, per l'appunto, non in misura tale da giustificare la sproporzione con i NEET di Germania o Francia, a meno di postulare che tutti i lavoratori in nero in Italia appartengano alla fascia di età 15-29 anni. 

In definitiva, l’unico dato strutturale che sembra avere un effetto determinante sull’occupazione giovanile in Italia è quello relativo alla formazione e ai servizi al lavoro. Quanto alla prima, basti notare che il mismatch tra domanda e offerta di lavoro nella fascia di età giovanile è del 41% per i profili più qualificati  (programmatori, infermieri, disegnatori industriali, idraulici, elettricisti). Come si vede, in ogni caso, non si sta parlando di scienziati nucleari, ma di profili tranquillamente alla portata del sistema nazionale di istruzione-formazione). Quanto ai secondi, negli ultimi anni (e non solo, a dire il vero) le politiche attive sono prevalentemente consistite in sgravi fiscali e contributivi per le aziende, in qualche intervento di sistema (Garanzia Giovani, Dote Lavoro Lombardia) e in zero servizi di orientamento. In compenso, non è mancata una importante mole di interventi normativi atti a vietare forme “improprie” di accesso dei giovani all’occupazione e a disincentivare, anche su pressione dei sindacati, forme innovative quali l’alternanza scuola-lavoro.

In conclusione, la disoccupazione giovanile italiana non è dovuta, se non marginalmente, a una propensione malvagia delle imprese a sfruttare i giovani lavoratori, che hanno in Italia trattamenti sostanzialmente analoghi a quelli di tutta Europa. Esiste però un problema reale di formazione-istruzione e di servizi al lavoro, cui in generale partiti e  sindacati rispondono non con politiche attive mirate ma con sussidi, divieti e obblighi. A dimostrazione di una ormai conclamata inadeguatezza a governare il mercato del lavoro e della connessa scelta di ripiegare sulla propaganda.

Resta da comprendere se, oltre a questi dati oggettivi, vi sia anche una propensione (o meglio resistenza) "culturale" dei giovani italiani, che sarebbe in caso interessante indagare. Ma questa, come si dice, è un'altra storia... 

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff
e Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 
     

30/1/2023

 
 

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