Più lavoratori ma meno lavoro

Gli ultimi dati Istat sull'andamento di occupazione e mercato del lavoro sono stati accolti con toni quasi trionfalistici: i segnali sono indubbiamente positivi, ma un'analisi più approfondita evidenzia delle criticità. Una su tutte, le ore lavorate non crescono in proporzione al numero degli occupati

Claudio Negro

Gli ultimi dati Istat ci dicono che cresce il numero delle persone occupate. Si tratta di una buona notizia anche se, prima di enfatizzare, sarebbe bene mettere a fuoco alcuni numeri: i contratti a tempo indeterminato crescono dello 0,2% rispetto al mese di aprile. Ma i contratti a termine crescono dello 0,4%, e gli autonomi, a trattamento fiscale di favore, crescono dello 0,6% (come al solito corre la domanda: sono nuovi lavoratori indipendenti o ex dipendenti riconvertiti per ovvie convenienze fiscali?).

Non solo, su base annua (quindi rispetto a maggio 2018) i lavoratori stabili crescono dello 0,4%, ma quelli a termine dello 0,6%. Non sembrerebbe un risultato fenomenale, anche se senz'altro positivo. E soprattutto parrebbe indicare che il Decreto Dignità è riuscito solo marginalmente a modificare i rapporti tra assunzioni a termine e assunzioni a tempo determinato: la crescita delle prime è ancora superiore a quella delle seconde. Inoltre, i contratti permanenti sono tornati quasi ai livelli pre-crisi e paiono essersi stabilizzati poco sotto quota 15 milioni, mentre i contratti a termine continuano a crescere, sia pure a ritmi più contenuti, e sono ormai oltre il 30% in più del periodo pre-crisi: come abbiamo spesso detto, le dinamiche del mercato del lavoro non possono essere piegate a piacimento dalla volontà politica...

Molte feste perchè il tasso di disoccupazione scende di 0,2 punti, ma anche questo dato è da prendere con le pinze così da valutarne bene le sfaccettature: in particolare, occorre segnalare che il risultato positivo è dovuto all'aumento degli occupati mentre è rimasto fermo il tasso di inattività, che dal settembre 2018 sta tra il 34,3% e il 34,4%, sostanzialmente invariato. Poiché questo indicatore è composto dalla somma di persone che né lavorano né cercano lavoro (pur essendo in età da lavoro) dimostra che non si riesce a "raschiare il fondo del barile": un terzo della popolazione, che potrebbe essere coinvolta nel mercato del lavoro, ne resta esclusa ( o si esclude). Che è esattamente il contrario di quello che servirebbe per avviare una politica di crescita.

Ma c'è un altro indicatore, che potremo acquisire quando INPS pubblicherà i dati sui flussi assunzioni-cessazioni, ossia quanti dei nuovi assunti sono part-time. Probabilmente molti, se verranno confermati i dati del primo trimestre. Il che confermerebbe c'è un punto debole della conclamata crescita occupazionale.

Il punto debole è che le ore lavorate non crescono in proporzione al numero degli occupati. Le ore totali lavorate nel primo trimestre 2008 (prima dell'inizio della crisi) erano state quasi 11,6 miliardi. Quelle del primo trimestre 2019 sono un po' sotto gli 11 miliardi: esattamente, la differenza è di 555 milioni di ore. Ma, posto che il numero degli occupati è quasi pari a quello ante crisi, ciò vuol dire che è molto basso il numero di ore lavorate per addetto; infatti, dalle serie storiche Istat si ricava questo dato: fatte 100 le ore lavorate pro capite nel 2015 (crisi piena), si è saliti a 103,5 nel secondo trimestre 2018, mentre ora si è scesi a 102. La diminuzione delle ore lavorate spiega due fenomeni, che altrimenti sarebbero incompatibili con una crescita occupazionale: la sostanziale stagnazione del PIL, documentata e prevista, e quella  dei salari, che dal 2012 sono cresciuti soltanto dello 0,16% annuo.

In definitiva, i dati Istat trionfalmente esibiti da stampa e politica comunicano a un'analisi più approfondita indicazioni più realistiche. Se vogliamo tirare le somme e tentare una fotografia del momento, troveremmo che il Paese è rimasto fermo a una (giusta) strategia difensiva contro la distruzione dell'occupazione. Redistribuire il lavoro esistente in una situazione di emergenza è una scelta saggia. Questo è stato il significato del part-time, anche involontario, praticato nelle imprese negli anni della crisi. Ma, lasciato alle spalle il periodo più difficile, la strategia dovrebbe cambiare: continuare a redistribuire il lavoro esistente non favorisce lo sviluppo, ma  crea decrescita. 

Claudio Negro, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Fondazione Anna Kuliscioff

10/7/2019

 
 
 

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