Quando la toppa è peggio del buco

Oltre alla sanatoria per i lavoratori stranieri che si trovano irregolarmente in Italia, il "decreto Rilancio" interviene sul tema del lavoro agricolo introducendo una norma che trasforma il sussidio al reddito in una sorta di salario minimo, garantito dallo Stato, e arrotondabile con altre prestazioni sulla base della buona volontà dei percettori: un caso da studiare per le politiche del lavoro del futuro o una scelta a dir poco discutibile?

Alberto Brambilla e Natale Forlani

Si dice spesso che “la toppa è peggio del buco” e nel caso della regolarizzazione dei migranti è proprio drammaticamente così. Di fatti, potremmo intitolare il provvedimento governativo: “Come far finta di promuovere il lavoro agricolo e prendere in giro i 700mila lavoratori italiani che faticano nei campi insieme agli immigrati”.

L'immagine dell'immigrato privo di permesso di soggiorno, vittima di caporali e costretto a lavorare nei campi in condizioni inumane è diventata l'icona della sanatoria per gli stranieri illegalmente presenti in Italia, la “giustificazione” umanitaria associata a quella sanitaria. Motivata dal governo con l’ineludibile esigenza di reperire una manodopera in grado di compensare il mancato ingresso in Italia dei lavoratori stagionali rumeni e sulla base del presupposto che questa carenza non fosse rimediabile mobilitando per lo scopo i disoccupati italiani. Eppure, anche le associazioni degli imprenditori agricoli, memori dell'inefficacia delle sanatorie pregresse, avevano chiesto al governo di attivarsi per riaprire in condizioni di sicurezza i corridoi d’ingresso per i lavoratori stagionali rumeni, analogamente a quanto hanno fatto i governi di Germania e Regno Unito, di ripristinare i voucher per remunerare il lavoro occasionale, e di offrire al mezzo milione di beneficiari del reddito di cittadinanza, che hanno già sottoscritto con i navigator l’impegno di accettare nuove offerte di lavoro, un'effettiva opportunità per inserirsi nel mercato del lavoro.

Parole al vento! Il cittadino italiano medio doveva essere convinto che senza la sanatoria correva seriamente il rischio di dover pranzare senza frutta e verdura e con prezzi alle stelle. E così è molto più facile scrivere una sanatoria dagli esiti incerti, che però ha il grande vantaggio di riscuotere ampio consenso tra i sindacati, i partiti di sinistra, i buonisti e anche della Chiesa piuttosto che implementare complicate e invise politiche di controllo del territorio, lotta al caporalato, alla pubblicità ingannevole che ti propone le arance a 1 euro al chilo (e quanto devono guadagnare i raccoglitori e i produttori se i tre quarti del prezzo se li mangia il distributore?). Non importa se a perderci saranno proprio “gli ultimi” cioè gli immigrati regolari e i lavoratori italiani, che subiranno una concorrenza sleale da eccesso di offerta di braccia. 

Ma non finisce qui: il governo sul tema della promozione del lavoro agricolo è riuscito a compiere un autentico capolavoro, che merita di essere evidenziato, inserendo nel nuovo decreto, insieme alla sanatoria (art.103), due nuovi articoletti che prevedono: a) di  esentare per 4 mesi i beneficiari del reddito di cittadinanza italiani, e gli altri percettori di sussidi di disoccupazione, dal dover accettare nuove offerte di lavoro, comprese quelle a tempo indeterminato, semmai qualcuno avesse la “cattiva idea” di proporle (art.76); b) di autorizzare i beneficiari del reddito di cittadinanza e dei sussidi di disoccupazione, a svolgere su base volontaria i lavori stagionali in agricoltura, ma nel limite di due mesi e di 2.000 euro, mantenendo la titolarità  e gli importi dei sussidi in essere (art.94). E non si dica, che il governo è contrario a far lavorare i beneficiari del reddito di cittadinanza in agricoltura: purché su base volontaria e con una retribuzione doppia rispetto ai 700mila braccianti italiani e i 156mila stranieri che lavorano abitualmente nei campi.

Perché occorre sapere che, a differenza di quanto dicono i “benpensanti”, e cioè che gli italiani non vogliono fare i lavori nei campi, in agricoltura - unitamente ai 470mila coltivatori diretti - a lavorare sono in gran parte gli italiani. E questo vale, purtroppo, anche per il lavoro sommerso nel settore che, secondo l’Istat, incide per il 4,5% su quello dell’intera economia e che riguarda soprattutto i lavoratori italiani, comunitari ed extracomunitari in possesso però di un permesso di soggiorno, come del resto ampiamente dimostrato negli esiti delle indagini degli ispettori del lavoro. L’immagine distorta del lavoro in agricoltura è servita semplicemente per promuovere una regolarizzazione di massa per gli stranieri illegali in Italia, la quale utilizzerà il veicolo delle assunzioni dei lavoratori domestici come canale privilegiato per simulare rapporti di lavoro inesistenti, esattamente come accadde nel 2012.

Per come funzionano le cose, gli ultimi a beneficiarne saranno proprio gli immigrati vittima dei caporali, dato che le condizioni ambientali e i vincoli etnici di appartenenza rendono complicato un affrancamento delle loro condizioni in assenza di adeguati interventi repressivi da parte delle autorità italiane, affrancamento che consentirebbe, sulla base della normativa vigente, di usufruire di un permesso di soggiorno per la ricerca di nuovo lavoro. Tutte cose note e ampiamente documentate. Di certo, non ci saremmo mai aspettati l’introduzione di una norma che trasforma il sussidio al reddito in una sorta di salario minimo, garantito dallo Stato, e arrotondabile con altre prestazioni lavorative sulla base della buona volontà dei percettori.

Un caso da studiare per le politiche del lavoro del futuro o da sottoporre agli esperti di malattie cliniche?

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

Natale Forlani, Comitato Tecnico Scientifico Itinerari Previdenziali 

25/5/2020

L'articolo è stato pubblicato su Libero Quotidiano del 25/5/2020
 
 

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