Record, mismatch e dimissioni: il mercato del lavoro tra falsi miti e mezze verità

I dati Istat sull’occupazione a fine anno e l'outlook sul 2023 raccontano di un mercato del lavoro in ripresa ma ancora debole nel confronto con l'Europa: mentre si discute di "grandi dimissioni", mismatch tra domanda e offerta e spaccature tra comparti restano le criticità più sottovalutate

Mara Guarino

Il 2022 è stato un anno di forte crescita di tutti gli indicatori economici, che hanno proseguito e incrementato il forte rilancio post COVID dell’anno precedente. Alla ripresa di PIL, esportazioni e produzione industriale ha fatto ecco quella dell’occupazione, tanto che in chiusura d’anno – a dicembre 202 -  l’Istat contava 23 milioni e 215mila occupati, 334mila in più rispetto a dicembre 2021 (+1,5%). 

 

I principali indicatori occupazionali: il 2022 in sintesi 

Di fatto, dell’ennesima cifra da record toccata nel 2022, così come è da record anche il tasso di occupazione, arrivato per la prima volta a quota 60,5%. Come rilevato anche dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali nel suo ultimo Osservatorio, interessante peraltro il fatto che la crescita occupazionale ha coinvolto anche e soprattutto le fasce di popolazione storicamente più svantaggiate: mentre il tasso di occupazione femminile è arrivato al 56,6%, quello giovanile (15-24 anni) ha raggiunto il 20,6%, valore non toccato dai primi anni 2000. Altro dato da sottolineare, peraltro in controtendenza rispetto alla vulgata del lavoro povero e precario, riguarda il rapporto tra le diverse tipologie contrattuali: nel 2022, i lavoratori a tempo indeterminato hanno superato stabilmente i 15 milioni, altro record di sempre. Il tutto mentre quelli a termine rappresentano il 16,6% del totale dei dipendenti, valore in linea con la media europea. 

Figura 1 – Andamento del tasso di occupazione nel tempo (valori percentuali)

Figura 1 – Andamento del tasso di occupazione nel tempo (valori percentuali)
Fonte: elaborazioni Itinerari Previdenziali su dati Istat

Malgrado l’enfasi mediatica - anche legittimamente - suscitata da questi dati, uno sguardo più attento impone tuttavia di evitare eccessi trionfalistici. Innanzitutto, il nostro Paese continua a soffrire, e molto, nel confronto con l’Unione Europea per quanto riguarda molti dei principali indicatori Eurostat: l’Italia è fanalino di coda per tasso di occupazione globale (60%), dove persino la Grecia fa meglio di noi con il 60,6%, a fronte di una media europea del 69,9%. Male anche l’occupazione femminile, con l’Italia sempre ultima, insieme alla Grecia, con il 51%, da rapportare al 64,9% della media europea; e non tanto meglio l’occupazione giovanile, che vede il nostro Paese terzultimo nell’Europa a 27 Paesi (19,8% contro un valore medio del 34,7%). Poco meno disastroso solo il dato riguardante l’occupazione senior, indicatore rispetto al quale fanno peggio Grecia, Croazia, Romania e Lussemburgo. 

Tabella 1 –Tassi di occupazione a confronto: Italia vs Paesi UE, terzo trimestre 2022
(ultimo periodo di rilevazione disponibile)

Tabella 1 –Tassi di occupazione a confronto: Italia vs Paesi UE, terzo trimestre 2022 (ultimo periodo di rilevazione disponibile)
Fonte: Eurostat
 

Un mercato del lavoro diviso in due: mismatch e confronto tra diversi settori  

In secondo luogo, come evidenziato dalla pubblicazione, difficile trascurare il delicato e ormai cronico problema del mancato incontro tra domanda e offerta di impiego che, se non compensato da adeguate politiche attive sul lavoro, potrebbe sul medio e lungo periodo frenare la dinamica occupazionale. Un tema peraltro spesso affrontato con superficialità o trascurato in favore di questioni più “mediatiche”, come quella relativa alle grandi dimissioni, fenomeno che, titoli a parte, non sembra stia interessando più di tanto il nostro Paese.

I dati di INPS e Ministero del Lavoro alla mano evidenziano semmai come un trend che si ripete ciclicamente, in coincidenza con periodi di particolare crescita, economica e occupazionale come quello che l’Italia sta vivendo nel post pandemia. Tanto che, numeri alla mano, il 2022 non ha davvero segnato un aumento così significativo nel numero di dimissioni (+6% nel terzo trimestre dell’anno, erano state ad esempio il 4,09% nel 2007, a monte della prima grande crisi internazionale). E, oltretutto, a dimettersi non sono i giovani professionalizzati, come le letture su un nuovo modo di interpretare l’approccio stesso con il lavoro vorrebbero, ma soprattutto lavoratori senza titoli di studio o over 50 alla caccia di condizioni migliori che, effettivamente, tendono a rioccuparsi nel giro di breve tempo, proprio perché dimessi solo dopo aver acquisito la certezza di avere a disposizione una nuova occupazione. 

Figura 2 –Le dimissioni volontarie in Italia, dal 2007 a oggi

Figura 2 –Le dimissioni volontarie in Italia, dal 2007 a oggi
Fonte: elaborazioni Itinerari Previdenziali su dati INPS – Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali 

Ora, come segnala anche la pubblicazione curata da Claudio Negro per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, in un mercato del lavoro “normale” una dinamica di questo tipo creerebbe un rapporto favorevole all’offerta, innescando un aumento non solo dell’occupazione stessa ma anche dei salari: in Italia ciò accade solo marginalmente, e questo proprio perché esiste già un gigantesco polmone tra domanda e offerta di lavoro che, nel concreto, finisce con l’ammortizzare gli effetti della domanda sull’offerta. In particolare, secondo Excelsior-Unioncamere, per il 2022, la vacanza di assunzioni toccherebbe punte percentuali pari a circa il 40%: se nei segmenti più alti il problema sarebbe la mancanza di adeguati profili professionali, in quelli più bassi a essere carente sarebbe l’offerta stessa, non certo incentivata dalle retribuzioni che settori a zero crescita produttiva e bassa professionalità sono in grado di offrire. 

D’altro canto, lo stesso confronto dei principali indicatori occupazionali indica una spaccatura interna al mercato del lavoro: da una parte, ICT, manifattura e costruzioni che sembrano creare lavoro più stabile e qualificato e, dall’altra, i servizi (tra cui turismo, settore alberghiero, ristorazione, servizi alle persone, e così via) che generano sì numerosi avviamenti ma che al tempo stesso tendono a utilizzare soprattutto manodopera generica e a bassa qualificazione, e spesso anche in modo saltuario, ad esempio con contratti stagionali o a tempo determinato. Un trend non nuovo ma indicativo di un possibile circolo vizioso, nel quale povertà della manodopera in termini di competenze e scarse qualità (e produttività) delle imprese si alimentano vicendevolmente. 


Outlook e previsioni sul 2023  

Malgrado i pessimismi legati a inflazione e scenari geopolitici, le previsioni per l’economia italiana restano positive, seppur con inevitabili rallentamenti, anche per i mesi a venire, tanto che si ipotizza per il mercato del lavoro un aumento di circa 116mila unità, largamente al di sotto della domanda. Proprio il mancato incontro tra domanda e offerta potrebbe confermarsi allora il principale elemento critico dell’anno in corso. Ecco perché l’Osservatorio rileva la necessità di un intervento: in primis, in modo strutturale e dunque con effetti apprezzabili solo sul lungo termine sul sistema di istruzione-e formazione; e, dunque, con correttivi di più rapida attuazione. Se incentivi economici come la decontribuzione hanno finora dato scarsi risultati, se non in pochi casi mirati, il vero salto di qualità è affidato a un utilizzo efficace e intensivo di politiche attive per il lavoro, finora sacrificate (anche in termini di risorse) in favore di misure assistenziali che, oltre a non risolvere i problemi che affliggono il Paese, finiscono con l’aggravare un debito pubblico già mostruoso. A discapito, oltretutto, delle giovano generazioni. 

Mara Guarino, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

7/3/2023

 
 

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