Cantiere pensioni: le ipotesi in campo per il 2026

Con l'approssimarsi della manovra di bilancio, torna in auge il difficile tema delle pensioni tra promesse di uscita anticipata e congelamento dell'età pensionabile

Michaela Camilleri

Con l'approssimarsi della manovra di bilancio per il 2026 torna in auge il difficile tema delle pensioni. Tra le principali ipotesi allo studio, emergono il blocco dell'adeguamento dell'età anagrafica all'aspettativa di vita e l’utilizzo del TFR per raggiungere la soglia minima di accesso alla pensione anticipata contributiva.

In merito alla prima proposta, il ministro Giorgetti ha più volte manifestato l’intenzione di voler congelare l’innalzamento dei requisiti anagrafici per il pensionamento previsto a partire dal 2027. L’iniziativa nasce dal fatto che, in linea con le disposizioni di legge, per il biennio 2027-2028 è previsto un aumento di tre mesi dell’età pensionabile per adeguare i requisiti minimi all’incremento dell’aspettativa di vita certificato da Istat per l’anno 2024. Per la prima volta dopo cinque anni, la speranza di vita alla nascita è superiore a quella del periodo pre-pandemico (81,4 anni per gli uomini e a 85,5 anni per le donne), aumento che si traduce in un incremento di sette mesi sullo scenario pensionistico. Dall’1 gennaio 2027 l’aumento, tuttavia, sarà di soli tre mesi per recuperare i quattro mesi persi nell’anno della pandemia, con un’età minima per il pensionamento di vecchiaia che – a meno di interventi legislativi – salirà, pertanto, a 67 anni e 3 mesi e un’anzianità contributiva per il pensionamento anticipato a 43 anni e un mese (42 anni e un mese per le donne).

 

Come funziona l’adeguamento dei requisiti minimi alla speranza di vita e perché è fondamentale per la sostenibilità del sistema pensionistico?

A partire dal 2013, il requisito minimo di età per il pensionamento di vecchiaia nonché il requisito contributivo minimo, indipendente dall’età, per il pensionamento anticipato, è stato adeguato ogni 3 anni in funzione della variazione della speranza di vita all’età di 65 anni rilevata dall’Istat nel triennio precedente. A partire dal 2019, la revisione è stata poi prevista con cadenza biennale anziché triennale. Tuttavia, l’adeguamento è stato nullo per i bienni 2021-2022, 2023-2024 e 2025-2026 in quanto non si sono registrati aumenti della speranza di vita. La norma prevede uno scalino massimo di 3 mesi tra un biennio e l’altro, fermo restando il recupero in sede di adeguamenti successivi: se, ad esempio, in un biennio l’aspettativa di vita è aumentata di 4 mesi, il mese eccedente verrà recuperato nel biennio successivo, purché ce ne siano i margini. Se, al contrario, la speranza di vita si riduce, come avvenuto nel 2020 per effetto della pandemia, non è prevista una riduzione dell’età pensionabile. 

Come previsto dalla normativa vigente, il procedimento per l’adeguamento dei requisiti minimi alle variazioni della speranza di vita non implica una decisione politica, rientrando interamente nella sfera di competenza amministrativa e assicurando, così, l’effettività della revisione periodica e il rispetto delle scadenze previste. Tale procedimento, è peraltro, coerente con quello previsto per l’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione nel sistema di calcolo contributivo, la cui periodicità è stata resa anch’essa biennale a partire dal 2019. 

Questo perché l’adeguamento dei requisiti minimi di accesso al pensionamento, insieme alla revisione dei coefficienti di trasformazione, rappresenta uno stabilizzatore automatico del sistema pensionistico atto a contrastare gli effetti negativi dell’invecchiamento demografico e garantire sostenibilità finanziaria. Inoltre, tale adeguamento produce un innalzamento del livello medio dei trattamenti pensionistici, contribuendo al miglioramento dell’adeguatezza delle prestazioni, specialmente nell’ambito del sistema di calcolo contributivo.

 

I requisiti a oggi vigenti

In linea con quanto previsto dalla maggior parte dei Paesi europei, il sistema pensionistico italiano prevede due canali di accesso al pensionamento: la pensione di vecchiaia, cui si accede sulla base dell’età anagrafica e un requisito contributivo minimo, e la pensione anticipata, che definisce un’età inferiore a quella prevista per il pensionamento di vecchiaia ma un requisito contributivo più stringente.

Per la pensione di vecchiaia, sono richiesti 67 anni di età anagrafica e 20 anni di anzianità contributiva per tutte le categorie di lavoratori, vale a dire uomini e donne, dipendenti e autonomi. Se non si raggiungono i 20 anni di contributi, il requisito anagrafico sale a 71 anni. La Legge di Bilancio per il 2024 ha poi stabilito che il diritto alla pensione di vecchiaia potrà essere conseguito a condizione che l’importo lordo mensile della pensione sia almeno pari all’importo dell’assegno sociale (precedentemente, era previsto che l’importo fosse pari almeno a 1,5 volte tale assegno). 

Per la pensione anticipata, invece, a prescindere dall’età anagrafica, sono attualmente richiesti 42 anni e 10 mesi di anzianità contributiva per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne. Per i lavoratori a cui si applica interamente il metodo di calcolo contributivo (neoassunti dall’1 gennaio 1996), è prevista la possibilità di anticipare il pensionamento a 64 anni di età anagrafica con 20 anni di contributi (pensione anticipata contributiva) e, secondo quanto stabilito dalla Legge di Bilancio 2024, a patto che l’importo lordo mensile della pensione sia pari almeno a 3 volte l’importo dell’assegno sociale (2,8 volte per le donne con un figlio e 2,6 volte con due o più figli).

Così come originariamente previsto dalla riforma Monti-Fornero, anche il requisito contributivo per accedere alla pensione anticipata avrebbe dovuto essere periodicamente adeguato all’aspettativa di vita. Tuttavia, in base a quanto previsto dalla Legge di Bilancio per il 2019 e dalle successive disposizioni attuative, gli adeguamenti sono stati sospesi fino al 31 dicembre 2026.

 

La proposta di utilizzo del TFR per anticipare la pensione

Proprio in merito alla pensione anticipata contributiva, il Sottosegretario Durigon si è fatto recentemente portavoce della proposta di estendere questa possibilità, ora prevista solo per i contributivi puri, a tutti i lavoratori. L’assegno verrebbe ricalcolato interamente con il metodo contributivo ma per raggiungere la soglia minima di accesso, pari a 3 volte l’assegno sociale (1.616 euro per il 2025), si potrebbe attingere al TFR accantonato presso l’INPS.

La novità riguarderebbe quindi solo i lavoratori occupati in aziende con almeno 50 addetti, per le quali vige l’obbligo di versamento del TFR al Fondo di Tesoreria dell’INPS. Si tenga conto che solo nel 2024 il flusso complessivo di TFR generato nel sistema produttivo è stimato in 32,7 miliardi di euro (dati COVIP); di questi, 17,6 miliardi sono rimasti accantonati presso le aziende, 8,6 miliardi versati alle forme di previdenza complementare e 6,6 miliardi destinati al Fondo di Tesoreria. Complessivamente, dal 2007 a oggi, su circa 445 miliardi di TFR, 234 miliardi (52,6% del totale) sono rimasti in aziende prevalentemente al di sotto dei 50 addetti; 105,9 miliardi di euro, pari al 23,8%, sono stati destinati alla previdenza complementare e ben 105,2 miliardi (23,6%) sono confluiti nel Fondo di Tesoreria.

La proposta del Sottosegretario Durigon ricorda la misura inserita nella Legge di Bilancio per il 2025 che ha previsto per i cosiddetti contributivi puri, cioè chi ha iniziato a lavorare dall’1 gennaio 1996, di poter accedere alla pensione anticipata con 64 anni di età anagrafica e 25 di anzianità contributiva (30 dal 2030) cumulando anche la rendita complementare per raggiungere il requisito delle 3 volte l’importo dell’assegno sociale INPS; stessa cosa per accedere alla vecchiaia contributiva all’età di 67 anni, con 20 anni di contributi e 1 volta l’importo dell’assegno sociale.

Anche nel caso di questa nuova proposta, la finalità ultima sembra essere quella di agevolare l’uscita anticipata dal mondo del lavoro e non tanto risolvere la questione del TFR gestito dall’INPS che potrebbe essere meglio investito a beneficio sia dei lavoratori sia dell’economia reale del Paese.

Il TFR è a tutti gli effetti una forma di retribuzione differita per i lavoratori e il suo impiego assume una notevole rilevanza all’interno del sistema Paese: per le aziende rappresenta una forma di autofinanziamento e, quindi, la prima fonte di liquidità a sostegno dell’economia reale, soprattutto per le PMI che faticano ad avere accesso al credito bancario. Le modifiche al Decreto Legislativo n. 252/2005 introdotte dalla legge finanziaria 2007 hanno però prodotto il duplice effetto di disincentivare, da un lato, l’adesione alla previdenza complementare e sottrarre dall’altro risorse all’economia reale, attraverso l’abolizione del fondo di garanzia per le PMI e l’obbligo per le imprese con almeno 50 addetti di far confluire il TFR lasciato in azienda proprio al Fondo di Tesoreria dell’INPS. 

Michaela Camilleri, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

23/9/2025

 
 
 

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