I conti del sistema pensionistico tra gestioni in attivo e in passivo

La spesa pensionistica è ammontata nel 2020 a 234,736 miliardi, contro i 230,259 del 2019. Tenuto conto di un calo delle entrate contributive del 6,7%, in gran parte imputabile a COVID-19, il saldo negativo tra entrate e uscite si è attestato a circa 39,3 miliardi: un deficit su cui pesa soprattutto il disavanzo della gestione dei dipendenti pubblici

Alberto Brambilla

Nel 2020 la spesa pensionistica relativa a tutte le gestioni previdenziali INPS e alle Casse dei liberi professionisti, al netto dell’assistenza ma considerando le integrazioni al minimo, le maggiorazioni sociali e la gestione assistenziale dei dipendenti pubblici (23,6 miliardi), è ammontata a 234,736 miliardi di euro, facendo segnare rispetto all’anno precedente un incremento dell’1,95%. Una variazione imputabile, in parte, alla rivalutazione delle rendite all’inflazione e, in misura maggiore, all’effetto rinnovo innescato dalla sostituzione delle pensioni cessate con quelle di nuova liquidazione, di importi mediamente più elevati.

L’incremento segnato nel 2020 non sposta il giudizio sulla tenuta del sistema previdenziale italiano che, seppure con alcuni elementi di criticità, sembra mantenere quella condizione di stabilità che le ultime riforme in materia si proponevano. Il vero problema continua a risiedere, da un lato, nella spesa assistenziale sempre più fuori controllo anche a seguito delle misure di sostegno introdotte a causa della pandemia da COVID-19 (Reddito di Cittadinanza, Reddito di Emergenza, etc.) e, dall’altro, nelle frammentate misure di anticipo pensionistico - quali Quota 100, APE Sociale, opzione donna, precoci, gravosi e così via - che stanno riportando il nostro sistema indietro nel tempo alla cosiddetta “giunga pensionistica”, situazione in cui l’accesso al pensionamento è determinato da tante (troppe) regole e condizioni diverse. Giusto per fare un raffronto la spesa pensionistica di 234,74 miliardi, al netto dei 23,6 miliardi assistenziali e dei 56 miliardi di IRPEF che gravano prevalentemente solo sul 30% dei pensionati (dato che metà dei 16,041 milioni è esentato per motivi di reddito o altro) ammonta a 155,28 miliardi; quella assistenziale a carico della fiscalità generale, vale a dire prevalentemente di quel 21% che si sobbarca quasi il 72% di tutte le imposte, vale ben 144,76 miliardi. Siamo insomma a un paradosso: la spesa netta per pensioni finanziata per oltre il 90% dai contributi sociali costa circa 10 miliardi in più di quella non finanziata da contributi di scopo ma solo dalle nostre tasse. 

Le entrate contributive per il 2020 hanno risentito ovviamente del lockdown dei primi mesi dell’anno e del rallentamento di molte attività produttive e di servizi (si pensi solo al quasi blocco delle attività turistiche invernali ed estive), che hanno ridotto sia le ore lavorate sia l’occupazione dipendente e autonoma e, di conseguenza, le entrate contributive, pari a 195,4 miliardi (-6,6% rispetto ai 209,4 miliardi del 2019). Pertanto, sulla base dei dati rielaborati nel Nono Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, il saldo tra contributi e prestazioni presenta un risultato negativo di 39,336 miliardi, che supera di 18,48 miliardi il saldo del 2019.

Questo deficit è il risultato delle gestioni attive e di quelle in pesanti disavanzi. Le uniche gestioni in attivo dell’INPS, seppur con risultati inferiori a quelli del 2019 sono: il Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti, con un attivo di 1,2 miliardi di euro (erano più di 20 lo scorso anno); la gestione Commercianti con un attivo di 607 milioni; la Gestione dei Lavoratori dello Spettacolo (ex ENPALS), con 150 milioni e la Gestione Separata dei lavoratori parasubordinati, con 6,8 miliardi di euro. Tutte le Casse privatizzate dei liberi professionisti - con la sola significativa eccezione di INPGI, la cui gestione sostitutiva per i giornalisti dipendenti confluirà in INPS a luglio - presentano risultati di bilancio positivi, beneficiando soprattutto di buon rapporto attivi/pensionati, per un totale di 3,877 miliardi. L’apporto complessivo delle gestioni attive, pari a 12,656 miliardi, consente di contenere il disavanzo totale tra entrate e uscite nella misura indicata di 39,336 miliardi. Senza queste poste attive il deficit del sistema pensionistico avrebbe raggiunto l'importo di 51,992 miliardi di euro. Tra le gestioni che presentano disavanzi il più elevato è quella dei dipendenti pubblici che, al netto dei 10,8 miliardi di contributo aggiuntivo a carico del datore di lavoro Stato, ammonta a 36,427 miliardi di euro, risultante da entrate per 40,142 miliardi e da uscite per 76,569 miliardi, e in aumento rispetto a quello registrato nei due anni precedenti (30,58 miliardi nel 2018 e 33,65 nel 2019). In pratica, quasi l’intero deficit annuo dell’INPS. Per dimensione del passivo registrato seguono quindi il fondo ex Ferrovie dello Stato, il cui pesante squilibrio gestionale è stato ripianato mediante trasferimenti a carico del bilancio statale per 4,46 miliardi di euro, i fondi ex INPDAI, la gestione degli artigiani (3,398 miliardi), e quella CDCM relativa ai lavoratori autonomi del comparto agricolo (coltivatori diretti, coloni e mezzadri) con 2,13 miliardi di disavanzo oltre al miliardo a carico della fiscalità. 

Per il 2021 il Rapporto prevede un deficit INPS intorno ai 24 miliardi per effetto dell’incremento degli attivi, che dovrebbero raggiungere il livello di fine 2019 intorno a aprile di quest’anno, e del flusso di contributi, per poi attestarsi a 20,8 miliardi entro il 2024; nel 2021 il numero delle pensioni liquidate è stato di 815.400, circa 50mila in meno rispetto al 2020 nonostante Quota 100 e le altre anticipazioni; pertanto, grazie all’aumento dell’occupazione, dovrebbe attestarsi a circa 1,45 attivi per pensionato, in linea con il 2019. Alla luce di questi dati, la pubblicazione conferma la sostenibilità del nostro sistema pensionistico attuale e nel prossimo futuro, a patto di: 1) spostare sui fondi bilaterali e sui contratti di espansione tutte le forme di anticipazione, compresi i gravosi di cui non c’è traccia nella letteratura scientifica; 2) mantenere la correlazione tra le età di pensionamento e la speranza di vita (la cosiddetta Quota 102, 64 di età e 38 di contributi, è un buon punto di equilibrio); 3) riformare l’organizzazione del lavoro prevedendo un sistema di invecchiamento attivo e rinforzare le politiche attive, (riducendo quelle politiche passive che assorbono la quasi totalità degli sforzi pubblici creando disincentivi all’occupazione), la formazione professionale e di 4) continuare a puntare sulla prevenzione, per aumentare non solo l’aspettativa di vita ma soprattutto quella in buona salute.

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali 

28/2/2022

 
 

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