Pensioni e Legge di Bilancio: quali novità per il 2023?

Le risposte del Prof. Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, ai dubbi più diffusi dopo l'approvazione della Legge di Bilancio: dai requisiti per Quota 103 alla rinnovata Opzione Donna passando per il nuovo schema di rivalutazione, alcuni chiarimenti sulle novità previdenziali previste per il 2023

Alberto Brambilla

Lo scorso 21 novembre 2022 il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge sul bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2023 e il bilancio pluriennale per il triennio 2023-2025. Il valore della manovra - il cui iter di approvazione da parte del Parlamento si è concluso, con il via libera del Senato, lo scorso 29 dicembre - è di 37 miliardi, con la previsione di un incremento del deficit dal 3,9% sul PIL stimato dal precedente governo al 4,5%, a causa del peggioramento delle previsioni relative alla crescita economica per il prossimo anno. Il grosso della Legge di Bilancio, che consente comunque di mantenere la progressiva riduzione del debito in rapporto al PIL richiesta dalla UE, è a sostegno delle imprese e delle famiglie in relazione all’aumento dell’inflazione e impegna risorse aggiuntive per oltre 21 miliardi. Anche per le pensioni ci sono però alcune novità e diverse conferme. Del resto, i tempi per pensare a aggiustamenti definitivi alla riforma Monti-Fornero e alle sue principali criticità, che tanti problemi stanno creando al sistema con continue fughe in avanti e abbassamenti d’età, erano veramente modesti.  

Veniamo ora alle novità, riguardanti non solo meccanismi di pensionamento anticipato come Quota 103 e Opzione Donna, ma anche l’indicizzazione dei trattamenti pensionistici.  

 

Conviene andare in pensione con Quota 103?

Quota 102, che consente il pensionamento per tutti coloro che maturano entro il 31 dicembre 2022 il requisito congiunto di almeno 64 anni di età e 38 di contributi, finisce e, a partire dal gennaio 2023 è sostituita dalla cosiddetta Quota 103, denominata anche pensione anticipata flessibile, che si ottiene con 62 anni di età e 41 anni di contributi. Mentre con Quota 102 i beneficiari possono andare in pensione, con rendite di qualsiasi importo, con Quota 103  si potrà percepire un assegno di importo massimo pari a 5 volte il trattamento minimo (circa 2.625 euro) fino al raggiungimento dei requisiti di vecchiaia della Legge Fornero, cioè 67 anni di età anagrafica, e solo dopo la pensione tornerà piena. 

Come per Quota 100 e 102, per Quota 103 una volta maturato il diritto a pensione entro il dicembre 2023 si potrà ritardare l’accesso al 2024 e oltre. È anche previsto che non si possa cumulare la pensione flessibile con il reddito da lavoro fino alla data di pensionamento di vecchiaia (67 anni), a meno di piccoli lavori autonomi occasionali (fino a 5.000 euro annui). Per Quota 103, come già per Quota 100 e Quota 102, resta in vigore la cosiddetta finestra mobile: per i dipendenti privati devono passare 3 mesi dalla data di maturazione dei requisiti per poter avere la prestazione e quindi per i primi richiedenti, a partire da aprile 2023, mentre per i dipendenti pubblici la finestra è di 6 mesi, da agosto 2023. 

Anche per chi opta per Quota 103 l’importo dell’assegno - relativamente alla parte contributiva, che comunque è ormai superiore al 70% dell’intero montante - sarà minore in virtù di un meno elevato coefficiente di trasformazione. A queste condizioni, se è possibile, vale da pena di aspettare i 42 anni e 10 mesi se uomini o un anno in meno se donne, indipendentemente dall’età anagrafica; in questo caso si può ancora lavorare e cumulare i redditi da lavoro e pensione e la prestazione si incassa per intero, da subito e senza limitazioni. Per questo il provvedimento - per cui sono stati stanziati 510 milioni di euro per il primo anno, 528 per il secondo e 498 per il terzo - potrebbe interessare una platea di circa 12mila persone rispetto alle 48mila persone ipotizzate dal governo, contro gli un po’ meno di 9mila beneficiari di Quota 102. 


Ho maturato i requisiti per la pensione: se decido di rimanere al lavoro quanto guadagno o quanto perdo?

La Legge di Bilancio prevede un bonus per chi decide di restare al lavoro una volta raggiunti i requisiti di Quota 103, con un esonero contributivo del 9,19% che consente un aumento dello stipendio della stessa misura. In pratica,  il datore di lavoro anziché versare i contributi a carico del lavoratore all’INPS li mette nella busta paga ogni mese a favore del lavoratore stesso; la legge rinvia a successivi decreti per cui non è ancora chiaro se l’importo relativo al 9,19% sarà al netto oppure verrà tassato con aliquote ordinarie. A ogni modo, il datore continuerà a versare la contribuzione a suo carico nella misura del 23,81% e il montante contributivo continuerà a rivalutarsi secondo la normativa vigente e il coefficiente di trasformazione, salvo diverse scelte del legislatore nei decreti attuativi, sarà quello relativo alla età effettiva in cui andrà in pensione.

Il provvedimento prende esempio dalla legge 243/2004 (bonus Maroni) che, per i lavoratori dipendenti privati che avessero scelto di ritardare il pensionamento anticipato, prevedeva il “superbonus” che consentiva di ottenere in busta paga l’intero importo dei contributi - sia quelli a carico del datore sia quelli del lavoratore - per giunta totalmente detassati. Ad esempio, con uno stipendio lordo di 2.000 euro la quota incassata mensilmente era intorno ai 660 euro, con la pensione calcolata dalla data di opzione e rivalutata all’inflazione fino al penultimo anno. Il superbonus ebbe un buon successo e notevoli risparmi di spesa per l’INPS: entrato in vigore nel novembre 2004 venne soppresso il 31/12/2007 dal governo Prodi-Damiano. Per il bonus attuale i guadagni in busta paga sono: 141 euro al mese per 13 mensilità, che diventano 283 euro per una RAL (retribuzione annua lorda) di 40mila euro.


Opzione Donna è prorogata? E a quali condizioni? 

La Legge di Bilancio proroga per il 2023 anche Opzione Donna, meccanismo che per chi avesse maturato i requisiti al 31 dicembre 2021 ha previsto anche per l’anno appena concluso la possibilità di pensionamento con 58 anni di età e 35 di contributi per le lavoratrici dipendenti (e 59 anni per le autonome); a due condizioni: le finestre mobili di 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 mesi per le lavoratrici autonome, e un assegno pensionistico totalmente calcolato con il metodo contributivo. 

Con la nuova manovra finanziaria il provvedimento viene sì prorogato ma di fatto anche pesantemente rivisto.  L’accesso non sarà più libero ma consentito solo a persone chi si trovino in condizioni affini a quelle previste per APE sociale e in particolare a: caregiver, che svolgono cioè assistenza da almeno 6 mesi a un parente di primo grado convivente o un affine di secondo grado convivente qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i 70 anni d'età oppure siano mancanti o a propria volta in condizione di invalidità); invalide con percentuale con una riduzione della capacità lavorativa non inferiore al 74%; lavoratrici licenziate o dipendenti da aziende in crisi. Cambiano poi anche i requisiti anagrafici da perfezionare entro il 31 dicembre 2022: 60 anni e 35 anni di contributi perfezionati entro il 31 dicembre 2022, con uno sconto di un anno per ogni figlio entro un massimo di due anni; 58 anni e 35 anni di contribuzione per le dipendenti di aziende di imprese per le quali è attivo un tavolo di gestione della crisi aziendale, a prescindere dal numero dei figli. Non è quindi stata eliminata dall’iter parlamentare la dibattuta premialità previdenziale per la famiglia, con l’aggancio dei requisiti  (per le donne con 2 o più figli, a 58 anni e 35 di contributi; a 59 anni di età e sempre 35 di contributi per le donne con 1 figlio e a 60 anni e 35 di contributi per le donne senza figli) alla condizione familiare. Confermate infine le finestre mobile. 

Va comunque precisato che la nuova “formula” non riguarda coloro che hanno i requisiti anagrafici e contributivi previsti dalle leggi previgenti (cioè 58/59 anni di età unitamente a 35 di contributi) al il 31 dicembre 2021: per queste beneficiarie non cambia nulla, tanto che potranno continuare a usufruire di Opzione Donna senza dover tenere conto dei “paletti” introdotti dall’ultima manovra finanziaria. 


È vero che cambia il modo in cui gli assegni sono rivalutati all’inflazione? 

La  rivalutazione delle pensioni voluta finalmente dal governo Draghi, rispolverando le normativa del 1996 e del 1998 - sempre disattese da tutti i Governi, da Monti a Letta, da Renzi al Conte 1 e 2, con enormi penalizzazioni per i pensionati - prevedeva che dal primo di gennaio 2023 la rivalutazione fosse al 100% per i 12.673.000 di pensionati con prestazioni fino a 4 volte il TM  (pari al 79% del totale pensionati), al 90% per 1.600.000 pensionati con assegno da 4 a 5 volte il TM  e al 75% per 1.772.000 pensionati con prestazioni sopra i 2.626  euro. Quest’ultima classe di pensionati avrebbe comunque perso, a causa della rivalutazione al 75% del 7,3% di inflazione previsto nel decreto MEF, complessivamente oltre 1 miliardo, e purtuttavia si trattava di un risultato eccezionalmente positivo vista la rivalutazione praticamente nulla stabilita dagli esecutivi precedenti. 

Invece, purtroppo per i pensionati meritevoli, le novità inserite nella Legge di Bilancio prevedono per il biennio 2023-2024 un ritorno al passato dove i vari funzionari dei ministeri hanno sempre utilizzato (è brutto dirlo) i pensionati, soprattutto quelli con pensioni oltre 4 volte il minimo (2.100 euro lordi al mese, non proprio ricchi) come un bancomat da cui prelevare soldi. E così è accaduto anche con il governo Meloni sul quale si erano appuntate le speranze di quelli “meritevoli” che le tasse e i contributi li hanno sempre pagati. Il nuovo schema di rivalutazione prevede infatti che le pensioni e gli assegni sociali e le pensioni integrate al minimo saranno rivalutate di circa il 120% rispetto all’indice inflattivo medio annuo stabilito provvisoriamente dal MEF. Più precisamente, verranno rivalutate del 100% rispetto all’inflazione provvisoria ma questo importo verrà ulteriormente maggiorato dell’1,5% per il 2023 (e del 2,7% per il 2024). Da chiarire se tale valore resterà come base per i successivi anni o si tornerà ai livelli 2022 rivalutati alla sola inflazione. 

Le pensioni fino a 4 volte il minimo (2.101 euro) saranno rivalutate del 100% dell’indice inflattivo, mentre l’incremento è ridotto per tutte quelle oltre 4 volte il minimo. Oltretutto attenzione, perché la perequazione del 2023 avverrà per fasce riferite al minimo del 2022 e non per scaglioni. Con i tassi di inflazione previsti si determina così un crescente squilibrio nel sistema premiando chi ha lavorato poco e versato pochi contributi, e quindi anche zero o poche imposte. 

Alberto Brambilla, Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

9/1/2023
 

 

 
 

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